La legge inscritta negli abissi della biologia

Di Caterina Giojelli
08 Luglio 2016
Abbiamo sentenze, forza, persuasione, «ma per spostare la barriera tra disponibile e indisponibile manca un’autorità». Appunti da un incontro con Luisa Muraro tra le femministe del Circolo della Rosa

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti)

«La vita non è una carriera, ha commentato una di voi la volta scorsa. Per forza, ho risposto io, altrimenti nessuno vorrebbe far carriera. La carriera si progetta, mentre la vita ha un potenziale che eccede quello che possiamo progettare e che può anche porre ostacoli ai nostri progetti. L’essere umano, come ci insegna lo sviluppo endogeno, è uno sforamento extra ordinario. Non sta al suo posto. Le cose più belle a questo proposito le ho trovate scritte dalla mistica Margherita Porete e riprese poi da Meister Eckart: Dio è dentro, si può cascare da dentro nell’infinito. Ora la nostra civiltà, il pensiero dominante, guarda verso una direzione, quella del tempo che scorre, si protende in avanti. Ma è solo un modo di pensare le cose, e con questo voglio tornare alla sentenza della Suprema Corte di Cassazione dell’anno scorso che vi ho già invitato a non interpretare come un progresso storico/temporale».

Siamo al Circolo della Rosa di via Pietro Calvi 29, il salotto più comodo del femminismo più scomodo, un grande spazio collegato alla storica Libreria delle Donne di Milano. Sessanta fra soci e socie, tutti riuniti la sera del 21 giugno per la terza lezione del ciclo “Verso una nuova coscienza evolutiva?” iniziato a maggio da una delle sue storiche fondatrici, la filosofa Luisa Muraro.

Il caso ripreso da Muraro è quello di M.M., una persona transessuale, a cui sia il tribunale di Piacenza sia la corte d’appello di Bologna avevano respinto la richiesta di rettificazione di attribuzione di sesso nei registri dell’anagrafe in assenza dell’intervento chirurgico: a differenza di quella inglese o spagnola, per la legge italiana (n. 164 del 1982) la modifica dei dati personali (nome proprio e sesso attribuito alla nascita) da parte di chi si riconosce transessuale, deve arrivare al termine di un percorso psicologico e ormonale e dopo la richiesta di autorizzazione ad operare gli organi genitali. Chiamata a deliberare sul caso di M.M, la Suprema Corte di Cassazione ha deciso invece che «il desiderio di realizzare la coincidenza tra soma e psiche è, anche in mancanza dell’intervento di demolizione chirurgica, il risultato di un’elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere, realizzata con il sostegno di trattamenti medici psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale. Il momento conclusivo non può che essere profondamente influenzato dalle caratteristiche individuali. Non può, in conclusione, che essere il frutto di un processo di autodeterminazione verso l’obiettivo del mutamento di sesso, realizzato mediante i trattamenti medici e psicologici necessari, ancorché da sottoporsi a rigoroso controllo giudiziario». Pur in possesso dell’autorizzazione, M.M. aveva infatti rinunciato alla demolizione/ricostruzione chirurgica dei propri caratteri primari maschili, affermando di aver raggiunto nel tempo un equilibrio psico-fisico e di vivere da 25 anni socialmente riconosciuta come donna.

Non chiamatela “sentenza storica”
«È una bella sentenza – commenta Muraro – perché il suo argomento è la sofferenza di una persona che si sente somaticamente estranea a se stessa, un desiderio che porta i giudici a una sorta di compassione e a un volere, nei limiti consentiti della legge, porre rimedio a questa sofferenza. Le leggi esistenti sono tuttavia tirate per i capelli: il verdetto della Corte di Cassazione rappresenta sì un cambiamento, ma sicuramente non un camminare necessariamente sulla strada della modernità, un progresso che ci porta a diventare più moderni. Perché, in realtà, quello che fa questa sentenza è operare uno spostamento tra disponibile e indisponibile: la differenza sessuale infatti non è un disponibile, è un indisponibile. Possiamo imparare il turco o andare a Honolulu, fare figli: sono tutte cose disponibili, così come alzarsi e accoltellare un essere umano, ancorché punito dalla legge e dalla morale, è un disponibile. Ci sono cose che sono invece indisponibili, non perché originariamente proibite o originariamente cattive, ma perché non sono a nostra disposizione per via di quello sviluppo endogeno che comincia nella notte dei tempi, negli abissi del biologico, nelle profondità del mondo, che ha avuto origine da quel punto in cui è cominciata la vita sessuata: è lì che viene iscritto l’indisponibile. La vita vuole che ci siano due generi».

Questo spostamento tra il disponibile e l’indisponibile (che nel caso considerato nasce da un desiderio, ha bisogno di parecchie mediazioni e porta conseguenze precise) «è accompagnato infatti dall’innalzamento di nuove barriere simboliche: poste tutte le complicazioni in materia di matrimonio che in Italia è ancora eterosessuale (ricordiamo che M.M. si sente donna, ma non procede alla rimozione dei suoi caratteri primari maschili), i generi sessuali sono e rimangono due e, proprio per evitare l’istituzione di tre generi, la sentenza dà delle disposizioni affinché questa donna non ritorni indietro con nuove cure ormonali».

Muraro sostiene che «per poter operare uno spostamento come quello della Suprema Corte, per rendere disponibile un indisponibile, ci voglia un’autorizzazione, un’autorità che dica che si può fare, e non farlo solo perché è possibile. E cos’è l’autorità? Per Muraro lo sappiamo tutti, ne abbiamo il sentore, è il punto centrale di tutte queste vicende umane, il grande assente nel dibattito etico, filosofico, giuridico e scientifico che investe oggi la sfera dell’umano, dove appunto le cose prendono senso e valore, oppure lo perdono. «Ma appena si comincia a riflettere sull’idea di autorità e a parlarne, dice Hannah Arendt, ci si trova prigionieri in un labirinto di astrazioni, metafore e figure retoriche, dove tutto può essere inteso e frainteso in modo diverso, quasi mancasse una realtà concreta, storica o quotidianamente sperimentata, alla quale si sia disposti, all’unanimità, a ricorrere».

Il Surrogacy Arrangements Act
Per la geniale pensatrice americana, che di tutte queste cose scriveva già negli anni Cinquanta, l’autorità è infatti quella potenza che ottiene obbedienza senza alcun mezzo costrittivo, senza minacciare ritorsioni, ma anche senza convincere. L’autorità riposa, è veramente presente e agente quando ottiene i suoi effetti senza dover ragionare o convincere. Non ha necessità di argomenti razionali; è questa l’intuizione della Arendt di cui noi tutti facciamo costantemente esperienza, ma che nessuno riesce a mettere a fuoco: «Il senso dell’autorità è perduto, e parlarne incontra resistenze terribili».

Eppure l’autorità continua a parlare a proposito dell’indisponibile ed è ancora a una legge che fa ricorso Muraro: quella con cui la Gran Bretagna ha autorizzato la maternità surrogata gratuita. «Non avevo mai sentito che i legislatori potessero esprimersi contro se stessi: eppure gli autori del Surrogacy Arrangements Act del Regno Unito sostengono esplicitamente che gli accordi di surrogazione non sono necessariamente dannosi, ma che sono sempre immorali. Anche in circostanze mediche gravissime, dice il testo, “i pericoli di sfruttamento di un essere umano da parte di un altro appaiono alla maggioranza di noi lontani dal compensare i potenziali benefici. In quasi tutti i casi si deve sempre opporre un’obiezione morale all’idea che qualcuno tratti altri come mezzo per i propri fini, non importa quanto siano desiderabili le conseguenze. Tale trattamento di una persona da parte di un’altra diventa uno sfruttamento vero e proprio quando sono coinvolti interessi economici. Oltre a ciò gli autori implicitamente affermano che c’è qualcosa di moralmente sbagliato o imperfetto nelle famiglie che si basano su fondamenta biologiche insolite”. Gli autori, cioè legalizzano, ma non danno la disponibilità: c’è un modo di dosare la legalizzazione in modo che non sia sentita come lo spostamento di un indisponibile».

Obbedire, un atto di libertà
La Corte Suprema in Italia ha tolto la barriera dell’operazione chirurgica a M.M. ma ha posto una nuova barriera simbolica, i generi sono e rimangono due. Questi pronunciamenti dell’autorità sono da considerarsi definitivi? Per Muraro lo sono solo per il soggetto implicato e sono la testimonianza che l’autorità non è facoltativa. L’autorità può sbagliarsi? Sì, dice Muraro. L’obbedienza all’autorità è infatti una forma di libertà: «Sapendo che si può e in molti casi si deve disobbedire (la storia ci regala molti esempi a proposito), ogni atto di obbedienza diventa un atto di libertà; è questa la condizione per cui l’essere possa espandersi e concorrere al suo destino di felicità».

In questo senso, come dice Arendt, l’autorità è centrale nella politica ed è alla riaffermazione di questa che Muraro invita a guardare, per ritrovare la bussola in un mondo ostaggio di sentenze e deliri tecnicoscientifici: non bastano forza, legge e persuasione, non bastano i tribunali, i parlamenti e i mass media, «l’autorità, la grande assente che pure ognuno porta iscritta dentro di noi, è l’unica che interpreta l’indisponibile e gli dà una misura. Il mondo scientifico si preoccupa dei comitati etici ma pone la libertà di ricerca come somma divinità. Mentre per lo stato attuale delle cose dovrebbe essere l’autorizzazione a fare, tentare certe strade. L’essere nel suo sviluppo endogeno, nel poter cascare nell’infinito, ha potenzialità illimitate e nel suo umanizzarsi nelle singole persone ha bisogno di essere incoraggiato, sostenuto. Il senso dell’autorità permette questo e si regola dall’interno, con senso di sicurezza di sé: questo è e dovrebbe tornare ad essere il frutto politico dell’autorità». Invece, come ha scritto la Arendt anni fa, non esiste orientamento perché non c’è autorità.

Foto Ansa

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2 commenti

  1. Sebastiano

    “I dati sulla carta d’identità rientrano indiscutbilmente nella sfera del “disponibile”.

    Fantastico! Quindi posso affermare, senza che alcuno si opponga, di essere alto 1,95 e di pesare 80 kg.

    1. Luca

      Perchè no? Se ti fa sentire meglio, per quanto mi riguarda puoi far mettere sul documento quello che vuoi, puoi anche cambiare nome e cognome, basta che il documento corrisponda ai registri anagrafici e la residenza sia quella corretta, che è poi l’unico scopo concreto del documento d’identità.
      Quante “bionde” hanno scritto “castano” sul documento?

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