LA LEZIONE DEI DISTRETTI INDUSTRIALI

Di Giorgio Vittadini
16 Dicembre 2004
Il professor Alberto Quadrio Curzio

Il professor Alberto Quadrio Curzio espone in un suo saggio una ricostruzione del secondo miracolo economico italiano, avvenuto tra gli anni ’70 e gli anni ’80, alternativo alle concezioni dominanti: «Mentre la grande impresa italiana pubblica e privata era prevalentemente ripiegata nel sicuro riparo del mercato interno, le imprese dei distretti industriali impararono a rendere sempre più efficienti i propri processi produttivi (introducendo anche nei settori più tradizionali le macchine più moderne), ad accrescere continuamente la qualità dei prodotti, a precorrere nuove frontiere come i servizi post-vendita e a valorizzare quella caratteristica innovazione di tipo informale e incrementale, essenzialmente italiana, che trova la sua massima espressione nel design e nella ingegnosa sofisticazione delle caratteristiche funzionali dei prodotti».
«Nel 1996 l’Italia diventa il terzo paese del mondo dopo Germania e Giappone per livello del proprio saldo commerciale. Tutto ciò senza possedere nemmeno lontanamente il numero di grandi imprese degli altri paesi industrializzati; avendo inoltre una presenza marginale nei settori hi-tech dove invece tali paesi sono estremamente attivi; operando con i vincoli di un “sistema Paese” fortemente penalizzante».
Alberto Quadrio Curzio individua, con questa ricostruzione, un metodo che ha caratterizzato lo sviluppo economico italiano e che può rappresentare il principio di un nuovo sviluppo: «Per queste ragioni si può anche parlare di sussidiarietà orizzontale di fatto: nell’esperienza italiana i distretti industriali rappresentano la risposta “spontanea” di un sistema economico periferico ricco di grandi potenzialità, ma sostanzialmente ignorato da una politica industriale dirigista. L’Italia ha dunque inventato un nuovo “modello” economico distinto dal capitalismo anglosassone e da quello renano, sia nella versione francese (dirigistica) sia in quella tedesca (partecipativa)». Quanto ricordato evidenzia quale sia il grave errore, da pochi sottolineato, che caratterizza la società italiana: ancor più che nella prima repubblica molti esponenti politici, buona parte dell’opinione pubblica, una porzione consistente del mondo associazionistico e sindacale sono convinti che siano l’assetto politico, il potere, il governo, il fattore determinante del nostro futuro. Per questo, sia che sperino negli uomini della provvidenza che in un nuovo statalismo, mettono in secondo piano opere, imprese, desiderio per la vita politica e partitica. In questo modo fanno sì che la politica determini ogni cosa e che riesca a ostacolare le nuove esperienze che continuamente nascono nella nostra società, come spiega efficacemente il professor Stefano Zamagni in un suo scritto: «I partiti politici predispongono la propria piattaforma elettorale pensando alle elezioni successive e non agli interessi delle generazioni future. è questa, infatti, la strategia per sperare di vincere nella competizione elettorale. Ma la politica democratica è la visione degli interessi lontani. La natura della più parte delle questioni rilevanti in ambito sia sociale sia economico è oggi tale che le decisioni che i governi prendono sulla base di un orizzonte temporale di breve periodo generano quasi sempre effetti di lungo periodo che si ripercuotono sulle generazioni future, alle quali però essi non rispondono elettoralmente».
Perché gli schieramenti partitici non si piegano a servire ciò che nasce, ciò che è vivo, invece di decidere tutto, anche il candidato da eleggere?

*Presidente Fondazione per la Sussidiarietà

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