La maledizione del tesoretto

Di Oscar Giannino
19 Aprile 2007
Dilapidando il surplus delle entrate fiscali per ingraziarsi i dipendenti pubblici, governo e sindacati hanno scatenato i languori dei già affamati lavoratori privati. Bell'idea di equità

Perché bisogna accettare supinamente che nel nostro paese ci siano figli e figliastri, a seconda che il datore di lavoro sia pubblico oppure privato? La concessione da parte del governo Prodi di 101 euro medi di aumento retributivo per il nuovo contratto dei dipendenti pubblici ripropone ancora una volta il tema. Che il liberista a forte vocazione di bastian contrario, il quale qui per voi scrive, intende affrontare non per mettere alla gogna gli oltre tre milioni di dipendenti pubblici italiani, ma semplicemente per rendere meglio comprensibile a tutti il problema aperto ormai da anni, e con crescente evidenza, nell’andamento delle retribuzioni del nostro paese. Affidiamoci ai dati Istat, nella speranza che almeno questi – in un paese in cui non si riesce a condividere più alcun indicatore economico, clamoroso segno di imbarbarimento – non vengano contestati e assunti come “di parte”. Partiamo dal 2001: in quell’anno le retribuzioni per unità di lavoro nella pubblica amministrazione aumentarono del 5,2 per cento, a fronte di una crescita del 2,8 nell’industria. Nel 2002 la crescita fu del più 3,7 per cento nel pubblico impiego e del 2,4 in quello privato. Nel 2003 l’aumento fu del più 3,2 per cento nel settore pubblico e del 2,4 nell’industria. Nel 2004 gli aumenti salariali furono del 4,3 per cento per i dipendenti pubblici e del 3,4 nella manifattura privata. Nel 2005 i dipendenti pubblici registrarono un più 4,4 per cento, mentre quelli dell’industria privata un più 2,4. Nel 2006, annualizzando il valore medio registrato nei primi tre trimestri, nel settore pubblico l’aumento delle retribuzioni è stato del 6,7 per cento, in quello privato è stato del 4,7. Ecco da dove nasce il fatto che sta sotto gli occhi di tutti: in quanto a retribuzioni, a parità di qualifica, tra lavoratori privati e pubblici, i secondi sono svantaggiati in una finestra che va dal 12 per cento fino – in taluni casi – al 28.
Che non sia giusto è assolutamente intuitivo, qualunque partito si voti, statalista o antistatalista, di destra o di sinistra. Da che cosa dipenda, invece, lo comprovano da decenni le tonnellate di studi sui cicli della spesa pubblica elettorale: le coalizioni al governo, approssimandosi l’appuntamento con le urne, stentano a usare per i rinnovi contrattuali dei dipendenti pubblici gli stessi parametri del settore privato, perché temono voti di disaffezione a proprio danno. È puntualmente accaduto anche questa volta, visto che il governo Prodi si presenta alle imminenti amministrative ancora fortissimamente penalizzato nei sondaggi, dopo la clamorosa falcidie fiscale effettuata tra il decreto di luglio 2006 e la Finanziaria, risultata ingiustificata sia alla luce della deliberata sopravvalutazione del deficit pubblico 2006, sia dell’altrettanto pervicace sottostima dell’extragettito fiscale, che iniziava a gonfiare le casse dello Stato già da fine 2005. I 147 euro (117 al netto dell’indennità di mancato rinnovo) chiesti dai sindacati confederali al tavolo del rinnovo dei contratti dei metalmeccanici confermano alcune riflessioni.
Cosa implica un andamento così asimmetrico dell’aumento del reddito disponibile? Innanzitutto che, agli occhi dei dipendenti privati e dei loro sindacati, perda sempre più accettabilità e giustificazione il parametro dell’inflazione programmata, che gli imprenditori privati continuano a considerare base insuperabile delle piattaforme contrattuali. Poi che le vertenze del settore privato talora si infiammino per mesi e anni, visto che i sindacati giustamente si impuntano (fanno il loro mestiere) e gli imprenditori recalcitrano. Pensate all’ultimo rinnovo del contratto dei metalmeccanici, in cui alla fine prevalsero le rivendicazioni della Fiom Cgil, ma solo al prezzo di mesi e mesi di blocchi ai cancelli per i pezzi di ricambio, senza i quali si bloccavano le linee di produzione. E oggi ci risiamo, siamo di nuovo in vista di un rinnovo dello stesso contratto, e proprio all’indomani della nuova concessione del governo ai ministeriali, ecco che la triplice sindacale ha immediatamente trovato accordo nel chiedere un aumento di 147 euro, di cui 117 per il nuovo contratto e 30 da mancato rinnovo del precedente. Fino a poche settimane prima, la Fim-Cisl ne chiedeva poco più di 100, tanto per dare un’idea di dove conduca la rincorsa scatenata dai lauti rinnovi del settore pubblico.

In arrivo altre mance da Prodi
In tale situazione non ha senso né continuare ad accettare che il reddito disponibile aumenti di più o di meno a seconda che il padrone sia pubblico o privato, né prendersela con gli statali come se fossero loro i colpevoli. È un fatto incontestabile che il patto di concertazione del ’93, nato sotto Ciampi per frenare l’inflazione, a suo tempo ha ottenuto pieno successo, ma in tempi di euro e di inflazione programmata inferiore di poco al 2 per cento esercita invece l’effetto di comprimere l’aumento del reddito disponibile in maniera asimmetrica a seconda delle qualifiche (a danno di chi l’ha più bassa) e non solo della forbice pubblico-privato. È un problema che pesa sulla domanda interna (la quale in questi anni infatti è rimasta forza assolutamente trascurabile fra quelle che sostengono la crescita italiana), ma che dovrebbe trovare una soluzione diversa dalla pura rincorsa salariale e dalle spallucce di compiaciuta sufficienza che i generosi partiti al governo riservano al settore privato. Prima che la forbice a danno dei lavoratori privati a bassa qualifica si spalanchi in maniera tragica, occorre semplicemente, e finalmente, non che il governo elargisca nuove mance discrezionali, come Prodi ha promesso di fare parlando della famosa restituzione del “tesoretto” fiscale, ma che si riformi seriamente e profondamente il modello contrattuale. Bisogna rendere disponibile più reddito per le basse qualifiche, con una forte contrattazione territoriale e nelle aziende, dove si forma davvero la curva dei costi e dove si decide meglio degli utilizzi di manodopera e impianti, a seconda del ciclo e degli ordini. Serve più salario di produttività nel settore privato. Serve anche nel settore pubblico, naturalmente, ma è un tema che lasciamo a Pietro Ichino, perché noi siamo realisti e non ci crediamo. È la grande occasione per Raffaele Bonanni della Cisl. Poiché la Cisl porta responsabilità rilevanti in questi esagerati aumenti per gli statali, sarebbe un bel modo di rimettere le cose in pari. Certo, c’è la Cgil da convincere. Ma è anche veramente paradossale che chi chiede sempre maggiore “equità” poi accetti che lo statale sia un privilegiato. Si ricordino dei fischi a Mirafiori di qualche mese fa, i segretari confederali.

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