La pazza scuola multiculturale

Di Caterina Giojelli
23 Novembre 2006
Tra un tip tap alla tolleranza e un valzer alla pace. Come ti educo il pupo alla scuola dell'integrazione posticcia

Nel silenzio generale, sono arrivati a quota 420 mila. Finiscono sui giornali solo quando “ci scappa il morto”. Ma nell’era della società multietnica, quello che non fa notizia è la vita normale, quella di Giangi, Rita, Francesco ed Emanuela. Storie di ordinaria difficoltà di integrazione nella scuola inteculturale.

Insegnare la Cina ai cinesi
La cinesina parla italiano, ma solo con certe amichette cinesi. Con gli italiani niente, appena il prof si avvicina ritorna a parlare nella lingua dei mandarini. Per Giangi, ex sessantottino alle soglie della pensione e insegnante di lettere in una media statale della periferia di Milano, la ragazzina è sempre stata un mistero. Un mistero come la promozione dello scorso anno. Artefici, i colleghi “buoni”, «una bontà intercontinentale che ha coinvolto la scuola in un progetto dei missionari del Pime. Incontri in cui volontari e preti bardati come padre Zanotelli condivano nozioni geografiche sui continenti con cori contro Berlusconi. Si parlava di un contributo di qualche euro da parte delle classi. E invece “informalmente” la scuola si era impegnata a elargire una somma assai più consistente. Tanto siamo pieni di soldi, no?». Giangi si è rifiutato di portare la sua classe ad altri incontri: «Li devo portare all’esame, mica fargli fare i coretti politici». Ma le staffe le ha perse in via Bonomi, «a un corso patrocinato dal Comune di Milano in zona Dergano, che a metà anno ci offre un supporto per preparare i cinesi all’esame. La scuola accetta e truppe di cinesi, tra cui la ragazzina riottosa all’italiano, si dirigono in zona Dergano dove prepareranno un progetto da esporre all’orale». Giorno dello scritto: Giangi chiede agli alunni di raccontarsi in una lettera. La cinesina scrive a un’amica cinese che abita in Cina, raccontando della Cina, senza accennare al fatto di trovarsi in Italia, con certi errori da far rabbrividire un insegnante delle elementari. Non va bene, dovrà mettersi sotto all’orale, dice Giangi ai colleghi. Quelli sbottano: «Non ti accontenti mai, ti attacchi a piccolezze». Giorno dell’orale: la cinese non si presenta. Le colleghe di Giangi le telefonano a casa: «Poverina, si era dimenticata». La cinese arriva ma il progetto di via Bonomi è rimasto a casa. Prima che Giangi possa aprire bocca il corpo insegnati gli è addosso: «Anche i nostri dimenticano le cose». La cinese tace, mentre la commissione la “interroga”: «Vivi a Milano? In quale via? Cosa ti piace di questa città?». La cinese non emette suono. Giorno dello scrutinio: cinesina promossa. «Per la cronaca, sapete il “progetto” di via Bonomi in cosa consteva? I cinesi vennero aiutati per settimane a preparare un grande, colorato, sbarazzino cartellone, sulla. Cina! E messi davanti a un planisfero non sapevano indicare l’Italia». Non volendo però generalizzare, Giangi racconta anche un’altra storia, quella di Laura, una cinese che per sentirsi più vicina ai compagni ha scelto un nome italiano. Laura è nata qui, a casa sua il padre non le parla, è vietato nominare il Giappone e al pomeriggio si frequentano i corsi di cinese per non perdere la lingua natia. Ma a scuola Laura studia e divora i libri italiani. Un giorno scoppia in lacrime: «Prof, i miei non mi manderanno a scuola finché non avrò finito di preparare le lanterne del ristorante di famiglia». Giangi le prepara gli appunti perché non rimanga indietro. Tornata a scuola chiede di poter leggere I promessi sposi: «Voglio capire di più questo paese». Provocatoriamente Giangi le chiede se se la senta anche di preparare una ricerca sul Giappone. Laura accetta, lei che il Giappone non doveva nominarlo. Decide anche di assistere alle ore di religione, lei che doveva esserne esentata, uscendone sconvolta: «Ma queste cose su un dio incarnato, sono vere?». Laura oggi fa l’università. Un caso, perché in media i cinesi non arrivano in terza. Non per le bocciature, ma perché scompaiono. Senza preavviso, si trasferiscono in un altro paese. Giangi è stufo. Di ricevere a colloquio signore cinesi che dicono di essere le madri di una bambina, ma di non saperla riconoscere tra quelle in classe. Del collega di educazione fisica che si accorge che alcuni 13enni hanno inequivocabilmente la costituzione di 18enni, «perché dopo una certa età devi fare il militare e non ti fanno più uscire dalla Cina». Prima di sposarsi Giangi viveva nella Chinatown milanese. Ha frequentato le scuole di via Giusti e già allora i cinesi superavano gli italiani. «Ma quella era gente scappata dalla rivoluzione culturale. Sgozzavano le galline per berne il sangue, ma avevano una gran voglia di mettersi in gioco. L’ondata di oggi è diversa: i cinesi non fuggono, arrivano».

Italiani commissariati
Rita Olivo insegna italiano «e tutta l’area antropologica, salto da una classe all’altra» nella scuola primaria De Amicis di Omegna, a pochi passi da una moschea quasi ultimata e in mezzo a una buona comunità musulmana. Tant’è che quando Rita si reca dalla dirigente dicendo che il prete della chiesa vicina vorrebbe chiedere una mano ai bambini della scuola per il coro, la risposta è: «Questo prete si sta allargando, non può girare qui perché discriminiamo i bambini arabi con la sua presenza». Rita fa notare che i musulmani non si sentono affatto discriminati da quel prete che al pomeriggio li ospita in oratorio per dar loro una mano con i compiti, ma niente. La dirigente le consegna invece un plico: «È il progetto per l’intercultura: ci sono un sacco di cose da fare». Rita scorre i punti: disegnare cartine per aiutare gli stranieri a orientarsi nella scuola, accoglierli con scritte nella loro lingua, assegnare ad ogni bambino italiano la supervisione di un extracomunitario. Rita partecipa a interminabili riunioni sull’integrazione in cui sono presenti tutti i genitori fuorché quelli stranieri. Osserva i musulmani rifiutare il menù agevolato della scuola e ottenere pasti sostitutivi che non spettano però ai bambini intolleranti. Rifiutare i momenti di gioco, di sport, le gite, le feste dei coetanei italiani. «Chiedo a una bimba musulmana di prima perché non viene in piscina con gli altri. La risposta è: “Perché il papà non vuole”. Sopraggiunta la sorella di quinta, le fa segno di tacere e la porta via». Rita non si abitua a questa diffidenza che non ammette confronti, o a quelle frasi che un papà arabo ha rivolto alla collega: «Mia figlia è svogliata? La picchi». Arabi con arabi, italiani con italiani, nella scuola di Omegna si sta tutti per i fatti propri. L’ultimo giorno di ramadan la scuola era decimata. Il giorno dopo i musulmani sono rientrati, le mani pitturate di henné, senza volerne spiegare ai compagni inquietati il significato.

Figliolo, non obbedire alla maestra
Quando Francesco Monteverdi, capo di una tribù di Casalpusterlengo deve iscrivere uno degli otto figli all’asilo s’imbatte in una lista d’attesa lunga una quaresima: «Già, perché c’è un codice in base al quale i figli delle famiglie extraeuropee hanno la precedenza, poi vengoni i figli dei separati. ed eccomi con otto figli in ultima posizione». Riescono a inserire il bambino, ma solo dopo qualche “pressione”. A Francesco le pressioni non piacciono, «ma non posso non mandarlo a scuola perché non sono extraeuropeo o separato». Un bimbetto musulmano comincia intanto a creare un po’ di confusione tra i compagni: «Papà ha detto che non devo obbedire alla maestra perché è una donna». Prima che il suo pensiero faccia scuola, i genitori convincono bambini e papà in questione che un minimo di obbedienza non guasterebbe. Ma le stranezze continuano: a metà novembre il figlio di Francesco è ancora a casa all’ora di pranzo. Ha gravi intolleranze a lattosio e glutine e la scuola non si è ancora attrezzata, dicono a Francesco, mentre piatti sostitutivi per bambini musulmani gli passano sotto gli occhi. Il figlio di Francesco dà poi una festicciola. Tra gli invitati, un pachistano. Il quale si presenta con mamma, zia e tre sorelle, che si appostano in un angolo, fuggendo all’avvicinarsi dei maschi. Urge un’altra spiegazione ai figli straniti. Francesco ormai ha imparato a non urtare la sensibilità degli stranieri, a salutare la mamma egiziana solo se il marito è distratto. Ma al fatto che le perplessità dei figli sorgano come funghi un po’ meno. «Non capisco, un amico ha adottato tre brasiliani, giunti qui anche grandicelli: non hanno vissuto progetti di integrazione, non si sono smosse le acque per facilitarne l’inserimento. Dopo tre mesi parlavano bene l’italiano, giocando con gli altri come ogni bambino di quell’età».

Dalla tolleranza al rispetto
Nella scuola media Marco Palmezzano di Forlì la prof. Emanuela Maroni fissa gli ideogrammi cinesi sul registro. Alza gli occhi verso la ragazzina. Dietro di lei, il rumeno, lo srilankese e quattro africani. A una settimana dall’inizio della scuola si aggiunge un marocchino. Fino al giorno prima portava i cammelli al pascolo, nemmeno un docente di arabo ne comprende il dialetto. «”Senta”, mi dice una mediatrice africana che ho chiamato per darmi una mano col progetto d’intercultura, “ho vissuto anch’io tanti progetti di integrazione. Ma poi l’incubo di rimanere un’estranea, premendo voi il pedale sul folklore della mia terra, non me lo avete tolto”». Emanuela non vuole il folklore, vuole sapere chi sono i suoi alunni. Un’ex insegnante di storia rumena, che in Italia fa le pulizie, la aiuta con gli slavi. Un’insegnante di disegno con i cinesi «per i quali parlare è una fatica fisica». La mediatrice africana deve ricredersi, i ragazzi supplicano i genitori più integralisti di lasciarli a scuola, capitanati dal ragazzo dei cammelli che riesce anche ad affrancarsi da un cugino aggressivo. Cugino che, colpito da quella strana amicizia tra musulmani e italiani, nonostante sia stato espulso, continua a presentarsi in classe. La cinesina chiede ai compagni come si fa a pregare e a Natale in classe si leggono passi del Vangelo e sure del Corano. Finito il ramadan Emanuela chiede ai musulmani di raccontare cosa è successo nella moschea, «spiazzandoli con la rivelazione che anche io, secondo le indicazioni del Papa, avevo digiunato: “Altro che tolleranza prof, questo è rispetto”, hanno commentato. Pochi giorni dopo, leggendo una poesia sull’impronta il ragazzino dei cammelli mi ha detto: “L’impronta che non scorderò mai è quella lasciata nella foccacia che mia mamma cuoce nel deserto”. Mi chiedo, a che adovrebbe portare l’intercultura, se non a quell’impronta?».

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