
La Polonia riforma la giustizia per non ridursi come l’Italia

Gran parte degli europeisti e la totalità dei progressisti vorrebbero inquadrare la vicenda delle controverse riforme nel campo della giustizia promosse dal governo nazional-conservatore polacco come un caso di violazione dei princìpi dello Stato di diritto e dei valori su cui si regge l’Unione Europea. La nuova legge che proibisce ai giudici (pena sanzioni che possono arrivare fino alla sospensione dalle funzioni) di criticare pubblicamente i provvedimenti governativi in materia di giustizia, e prima di essa il provvedimento che affida al parlamento la nomina della maggioranza dei membri del Consiglio giudiziario nazionale, l’organo che nomina i giudici nel paese, sono stati etichettati come tentativi di sottomettere il potere giudiziario al governo, e dunque come violazioni della separazione dei poteri.
Una risoluzione approvata dal Parlamento europeo a metà di gennaio con 446 voti favorevoli, 178 contrari e 41 astensioni afferma che «la situazione sia in Polonia che in Ungheria si è deteriorata» e che «continua a compromettere l’integrità dei valori comuni europei». In Italia personaggi come l’ex ministro Carlo Calenda auspicano addirittura che la Polonia sia espulsa dall’Unione Europea.
Le riforme giudiziarie che il governo guidato dal PiS sta introducendo in Polonia attraverso i voti del parlamento, dove dal 2105 detiene la maggioranza (confermata nelle elezioni dello scorso anno), sono indubbiamente oggetto di un forte scontro politico con l’opposizione e soprattutto di un conflitto istituzionale fra l’esecutivo e la Suprema Corte costituzionale che rischia di paralizzare la giustizia nel paese, ma l’indignazione dei progressisti appare davvero molto selettiva e unilaterale per almeno due ragioni.
NESSUNO PROTESTA CONTRO FRANCIA E USA?
La prima è che la Polonia non sarebbe certamente l’unico paese occidentale che riconosce una supremazia dell’esecutivo sulla magistratura: in Francia la Costituzione della V Repubblica riconosce al ministro della Giustizia, fra i suoi vari poteri, quello di emanare ogni anno un programma di politica generale della giustizia che i magistrati delle procure sono tenuti ad attuare; al posto dell’”obbligo dell’azione penale” troviamo dunque una decisione politica sui reati da perseguire. Negli Stati Uniti i presidenti in carica nominano non solo i nuovi giudici della Corte suprema in sostituzione di quelli che vengono meno, ma anche i giudici di circuito e i giudici di distretto, le due principali strutture dei giudici federali.
Oltre a 2 giudici della Corte suprema, nel corso dei suoi mandati Barack Obama ha nominato un totale di 327 giudici di circuito e di distretto; il record fra i presidenti democratici ce l’ha Bill Clinton, con 376; il record assoluto lo detiene il repubblicano Ronald Reagan, che ne scelse 379; Donald Trump finora ha nominato 50 giudici di circuito e 135 di distretto (oltre a 2 della Corte suprema). Tutti questi giudici si occupano di reati federali, che in linea generale sono quelli più gravi.
L’INTERVENTISMO POLITICO DELLE TOGHE
Il secondo motivo per il quale la campagna antipolacca e antiungherese dei progressisti appare ipocrita è che finge di ignorare uno dei problemi di fondo della democrazia del nostro tempo: quello dell’interferenza del potere giudiziario nelle materie politiche, ovvero quello della confisca della democrazia da parte dei giudici delle corti costituzionali e delle corti ordinarie. Europeisti approssimativi, giustizialisti e progressisti non hanno occhi che per quella ferita alla democrazia che sarebbe la supremazia di parlamento e governo, eletti dal popolo, sui giudici; non danno nessun peso al fatto che materie decise in sede politica vengono sistematicamente riformate dall’intervento dei giudici in quasi tutti i paesi occidentali, e che da qualche anno i magistrati di molti paesi siano protagonisti di un attivismo giuridico senza precedenti e intervengano di fatto legiferando su questioni che parlamenti e governi avevano deciso di lasciare com’erano.
I due paesi dove questi fenomeni si manifestano maggiormente sono, apparentemente, l’Italia e gli Stati Uniti. In Italia la maggior parte dei cosiddetti “nuovi diritti” di impronta individualista e radicale sono stati imposti non dal voto del parlamento, ma dalle decisioni dei giudici costituzionali o di corti di appello: dalla soppressione fisica di Eluana Englaro alle sentenze sui “figli di due mamme” che aggirano il divieto italiano sull’utero in affitto, dalla scandalosa abrogazione del divieto di fecondazione assistita eterologa (l’Italia è obbligata a promuovere la nascita di orfani biologici) all’introduzione del suicidio assistito, passando per molte altre faccende, giudici ordinari e magistrati costituzionali hanno fatto carne di porco di leggi votate dal parlamento e confermate da risultati referendari o hanno dichiarato incostituzionali norme del codice penale che per 70 anni non avevano considerato tali.
UNA COSTITUZIONE RIVALE
Negli Stati Uniti le cose non vanno affatto meglio. Come ha recentemente affermato in un’intervista il saggista Christopher Caldwell, le leggi sui diritti civili approvate negli anni Sessanta per combattere la segregazione razziale negli stati del Sud hanno avuto conseguenze indesiderate:
«Queste nuove leggi hanno esposto ogni recesso della vita americana all’esame dei giudici. Ciò ha aperto la strada ad un nuovo sistema di governo, consistente nel cambiare la società non più attraverso il sistema democratico, come avveniva in passato, ma attraverso una regolamentazione burocratica e sentenze giudiziarie. Effettivamente la legislazione sui diritti civili ha creato una seconda Costituzione, rivale di quella originale, che può ormai essere usata per sabotare quest’ultima. Altri gruppi che cercavano di conquistare posizioni nella società americana – le donne, gli immigrati, gli Lgbt – hanno avuto accesso a queste scorciatoie. Così un numero sempre maggiore di questioni della vita americana è stato sottratto al controllo democratico dei cittadini. Per quanto riguarda per esempio l’aborto, l’educazione bilingue, il matrimonio di coppie dello stesso sesso o l’immigrazione, gli americani non stabiliscono le loro leggi democraticamente, ma delle scelte vengono imposte all’opinione pubblica attraverso regolamenti e decisioni di giustizia».
SOCIETÀ VS DIRITTI INDIVIDUALI
Le decisioni dei giudici, in Europa come in America, vanno quasi sempre nella direzione dell’estensione dei diritti individuali a scapito di quelli collettivi, indeboliscono le formazioni sociali e rafforzano le prerogative dei singoli. I magistrati appartengono all’élite sociale e culturale dei paesi occidentali, e la cultura delle élite è improntata al politicamente corretto del vietato vietare, dell’imperativo dell’uguaglianza, della trasformazione dei desideri in diritti. Cultura perfettamente funzionale alla logica del profitto illimitato, sotto la copertura ideologica dei princìpi della libertà e dell’autonomia dei singoli: si pensi alla Corte europea dei diritti umani che ha condannato la Lituania per aver multato i responsabili di un’inserzione pubblicitaria che offendeva il sentimento religioso.
I giudici europei hanno stabilito che la protezione della libertà di espressione del singolo (che può consistere nel fare la parodia di un fatto religioso) è più importante di un tipico valore di coesione sociale com’è quello del rispetto del sentimento religioso, anche quando la libertà di espressione mira principalmente ad estrarre un profitto da pratiche commerciali e anche quando il sentimento religioso è condiviso dalla maggioranza della popolazione.
UN CONFLITTO DI INTERESSI
Ha inquadrato perfettamente il problema il giurista francese Bertrand Mathieu:
«Una delle cause della distruzione della democrazia è questo primato dell’iper-individualismo a cui si riduce il diritto. Nella nostra società, l’individuo si definisce liberamente per quanto riguarda il suo sesso, la sua identità o il suo fine vita. Non si arrivano più a riconoscere valori comuni per un destino comune. Ora, perché la democrazia esista, occorre che un popolo si iscriva in una storia e in un avvenire, proprio ciò che scompare in questo momento. Questo fenomeno è legato allo scivolamento del potere dalle mani del legislatore, incaricato di rappresentare l’interesse generale, a vantaggio del giudice, che è competente per decidere fra gli interessi individuali».
Viste in questa luce, le riforme dei governi conservatori polacco e ungherese assumono un profilo diverso. Per definizione, le forze politiche conservatrici mirano al mantenimento della coesione sociale attraverso la protezione delle istituzioni e dei simboli che conferiscono identità collettiva ai cittadini: la famiglia, la nazione, la Chiesa, la comunità locale, gli usi e costumi, il territorio, la memoria, eccetera. I loro obiettivi politici sono programmaticamente contrastati dalla cultura dominante fra i giudici, che agiscono nell’ottica dell’affermazione dei diritti individuali. Senza un potere di controllo non sulle singole sentenze, ma sulla filosofia e sulla visione del mondo dei magistrati chiamati a giudicare, il progetto politico delle forze conservatrici è destinato a disintegrarsi.
LE PATOLOGIE SONO DUE
Polacchi e ungheresi non sono stupidi: hanno visto quello che è successo e che continua a succedere in Italia, hanno visto come una società che cercava di conservare certe istituzioni e certi valori appoggiandosi a una certa formula di governo (quella del centrodestra berlusconiano influenzato dalla Chiesa italiana dell’epoca Ruini) si è dovuta arrendere a un’élite di giudici e di magistrati che hanno puntualmente esercitato i loro poteri per disfare la tela tessuta dai conservatori e spintonare l’Italia sulla strada del progressismo. Perciò prendono il solo genere di provvedimenti che li garantisce veramente rispetto alla deriva progressista per interposti giudici.
Si dirà: una subordinazione accentuata del giudiziario al politico implica nel tempo la trasformazione di un sistema politico in un regime. Già. Perché invece la dittatura del politicamente corretto per interposte corti costituzionali, corti europee e giudici d’appello come la vogliamo chiamare, repubblica di Platone? La verità è che la democrazia illiberale di Viktor Orbán e dei nazional-conservatori polacchi è una reazione al potere oligarchico tecnocratico delle élite progressiste che disfa le società per premiare gli individui. O sono tutte e due patologie, o non lo è nessuna delle due. Chi grida “al lupo!” davanti alla prima senza dire e fare nulla riguardo alla seconda, è uno che lavora per il re di Prussia. Anche e soprattutto se è cattolico e se vota Pd e affini.
Foto Ansa
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