La pulizia etnica contro gli armeni non “tira” nei notiziari occidentali

Di Renato Farina
14 Gennaio 2021
Gli armeni rimasti nel Nagorno-Karabakh passato sotto gli azeri sono terrorizzati. Circolano video di civili umiliati e massacrati. Ma i nostri giornali non ne parlano: il tema non porta lettori
Pellegrini cristiani armeni in preghiera nel monastero di Dadivank nel Nagorno-Karabakh

Articolo tratto dal numero di gennaio 2021 di Tempi. Questo contenuto è riservato agli abbonati: grazie al tuo abbonamento puoi scegliere se sfogliare la versione digitale del mensile o accedere online ai singoli contenuti del numero.

Avrei cose importanti da raccontare sull’Armenia e sul Nagorno-Karabakh. Qui si è abbattuta la guerra. Noi molokani dai nostri villaggi presso il lago di Sevan abbiamo visto la fuga di chi è stato strappato dalle sue case. Noi, eretici perseguitati, russi malfamati, bevitori di latte, fummo accolti nei secoli dagli armeni pietosi. Ci credete? Quel che ho visto e udito del dolore di questi cristiani ho cercato di trasmetterlo verso ovest, ho scritto lettere, mandato filmati, qui tra noi ci sono ragazzi in gamba, traducono in tutte le lingue i racconti, e poi le immagini spezzano i cuori da sé. E allora perché ho trovato quasi solo cecità e sordità?

Ho provato a chiedere il perché di questo disinteresse. Di solito la risposta è: il tema non tira presso il pubblico. Qualcuno più profondamente inizia a intonare un lamento che diventa anche un mea culpa. Non c’è una necessità interiore di rompere il muro del silenzio. È la tecnologia che rendendo facile la comunicazione ha ucciso il senso di cercare le venature preziose della realtà passando giorni e giorni a scavare storie e condividerle? O è l’assenza di tempre umane vibranti ad avere reso anemici e moribondi i giornali? Insomma, i giornali sono stanchi ma i giornalisti anche di più. Non è possibile che il sacro fuoco per cui – secondo il celebre passo di Terenzio – «homo sum, nihil humani a me alienum puto» (sono un uomo e non c’è nulla di umano che non mi interessi) si sia spento per l’automatismo con cui le notizie quasi si generano da sé senza bisogno di artigiani che ci versino sopra sudore, lacrime e risate.

Una storia che ricorda il martirologio

Credo che sia nato prima il bisogno di comunicare. Si è dato strumenti adeguati ad esso. Oggi lo strumento è infinitamente più potente e massivo del desiderio, che così ne è schiacciato. E allora? Mi viene da citare Giovanni Testori che sul settimanale Il Sabato fu testimone e maestro di un impeto amoroso più forte della piccolezza di quelle pagine: «Credo che il mondo e soprattutto i cristiani hanno la responsabilità e il destino, che è la sola speranza, di tentare di essere contemporaneamente insurrezionali e resurrezionali». Ed eccomi qui a provare a insorgere e risorgere con i miei armeni.

Il Natale per gli abitanti del Nagorno-Karabakh (Artsakh in armeno) è coinciso con il Sabato Santo: la discesa agli inferi. Non è finito neppure a gennaio. In migliaia e migliaia avevano dovuto lasciare precipitosamente la terra dei loro antenati per timore degli occupanti turco-azeri. Parecchi, circa 40 mila, hanno provato a tornare nella Repubblica dell’Artsakh. E tanti sono fuggiti di nuovo, convinti che non sarebbero sopravvissuti alla vendetta degli azeri. Costoro erano stati cacciati nel 1994 dalla regione concessa loro da Stalin nel 1921 ma occupata dagli armeni sin dall’antichità.

La tremenda guerra lampo (27 settembre-9 novembre) è solo l’episodio più recente di una storia che ricorda il martirologio. Gli armeni hanno dovuto resistere a occupazioni, invasioni, massacri. L’altroieri romani, bizantini, persiani, arabi, mongoli; ieri russi, turchi e tartari, ribattezzati azeri nel XIX secolo. Ogni volta, soprattutto dopo il genocidio del 1915, gli armeni sono insorti e risorti, nel segno della fede.

«La speranza ci anima»

Il Catholicos Karekin II è convinto che riaccadrà anche stavolta: «Abbiamo forgiato la nostra anima resiliente traendo la nostra forza dalla fede in Gesù Cristo. La speranza ci anima». Il capo della Chiesa apostolica armena ha visto l’arrivo nei giorni scorsi a Etchmiadzin, il “Vaticano” locale, a 20 chilometri da Yerevan, la capitale dell’Armenia, ammucchiati frettolosamente su camion rumorosi, pezzi di memoria cristiana riportati dagli armeni cacciati dall’Artsakh, dove 125 chiese sono passate sotto l’amministrazione azera.

Nessuno lo dice. Dalla fine del conflitto sono circolati sui social network dei video che mostrano soldati azeri in uniforme che umiliano, picchiano e talvolta addirittura massacrano civili armeni. È in corso una pulizia etnico-religiosa?

Gli armeni rimasti nei villaggi passati sotto l’amministrazione azera sono terrorizzati. Così a Kalbajar, dove sorge il monastero Dadivank, sette sacerdoti continuano ad accogliere ogni domenica, per la liturgia, i pochi fedeli resistenti. Li mandano a chiamare, e arrivano sotto scorta armata russa (Putin ha garantito per cinque anni una forza militare di controllo). E poi? Tanto più che alcune fattorie nei dintorni corre voce siano state date, come premio per il loro ottimo e sanguinario servizio, a mercenari siriani jihadisti.

Foto Ansa

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