
La redenzione in carcere ha il buon profumo del panettone
Discussione del testo unificato delle proposte di legge d’iniziativa dei deputati: Angeli; Pisicchio; D’Ippolito Vitale e Carlucci; Renato Farina ed altri: Norme per favorire l’inserimento lavorativo dei detenuti.
Signor Presidente, il gruppo del Popolo della Libertà ha dato un contributo credo decisivo nell’ispirare e nel promuovere questo provvedimento. Tra l’altro, sottolineo come questo testo non sia in realtà frutto delle «pensate» di questo o di quell’altro gruppo, ma nasce da un’esperienza molto pratica, molto concreta. Infatti, è nata all’interno dell’intergruppo per la sussidiarietà tra persone che appartengono a diversi partiti, ma – a sua volta – non è nata da un incontro a tavolino tra personalità di vari schieramenti, quasi per applicare deduttivamente l’articolo 27 della Costituzione, ma è nata da un incontro con realtà viventi. Infatti, ad un certo punto della nostra esperienza parlamentare, che ci consente di andare a visitare le carceri (infatti non abbiamo diritto soltanto al biglietto gratis sull’aereo, ma anche al «biglietto gratuito» per entrare nelle carceri), c’è stata la possibilità di incontrare delle esperienze sorprendenti. Prima di tutto, naturalmente, si vedono questi loculi angusti ed insopportabili da cui viene veramente il senso neanche della espiazione richiesta (chiunque è carcerato è consapevole di essere colpevole e ci sta: noi ci portiamo dietro i nostri atti), ma il sentimento della inutilità dell’esistenza umana, del buttar via la dignità umana.
Poi, di colpo, ecco che ci siamo imbattuti in un altro tipo di esperienza. Siamo andati in gruppo a visitare il carcere «Due Palazzi» di Padova, dove c’è l’esperienza di applicazione concreta della legge Smuraglia, la quale a sua volta non ha determinato questo, ma è stata determinata dalle esperienze in atto. Questa è la cosa più importante. Per questo mi rivolgo ai colleghi della Lega dei quali rispetto profondamente le preoccupazioni, ma ad essi voglio dire che esattamente quei valori che vogliamo tutelare insieme – cioè la sicurezza e il lavoro per tutti – trovano in questo tipo di esperienza il loro conveniente sviluppo. Mi spiego: quando sono entrato nel carcere «Due Palazzi» prima di tutto siamo stati tutti colpiti da un altro clima, oltre che dal profumo del panettone. Peraltro, vorrei esibire l’articolo uscito proprio sabato scorso sul Corriere della Sera, non in una pagina sociale, ma nella pagina «Viaggi e la dolce vita». Infatti, il Taste della rassegna fiorentina di «Pitti immagine» ha scelto i biscotti e la pasticceria del carcere come esempio di qualità. Quindi, trovi questa esperienza di eccellenza che tra l’altro genera anche prodotti di esportazione. Come ha detto la collega Mosca, questi producono addirittura dei gioielli e non è mai sparito un grammo di gioielli Pomellato (mi sembra che si chiamino così), oltre alle valigerie e una volta facevano anche le biciclette Atala.
Tutto questo cosa comporta? Comporta che queste persone, nel momento in cui escono con un lavoro in mano così, riducono la recidività addirittura all’1 per cento, quando normalmente la recidività di coloro che sono in carcere è, a seconda degli istituti e delle regioni, tra il 70 e il 90 per cento.
Ho calcoli diversi dalla collega Mosca e mi risulta che un detenuto costa 250 euro al giorno. Ho fatto proprio i calcoli come si facevano alle medie, perché non sono capace di fare diversamente. Ho fatto il calcolo e ho constatato che risparmiamo circa, per ogni 1 per cento di recidività in meno, sia in spese di giustizia sia in spese di carcerazione, 61 milioni di euro. Dunque, risparmiamo in quel senso.
Inoltre, incrementiamo il lavoro e chiunque sa di economia e lavora sa che non ci deve essere invidia sociale se nasce del lavoro. Guai a creare invidia sociale tra quelli che lavorano in carcere e quelli fuori. Più lavoro c’è e più se ne crea. Questa è la grande verità dell’economia. Se chi esce dal carcere non distrugge la sicurezza, incrementa l’economia. Sappiamo che nei Paesi dove vige esclusivamente il sistema repressivo nell’intendere la pena la violenza fuori, in realtà, è infinitamente superiore a quella dell’Italia. Pensiamo al Messico e persino agli Stati Uniti d’America, dove vi sono un milione di persone carcerate ma non vi è nessuna sicurezza per le strade, molto meno che in Italia (sono dati storici).
Vogliamo questo per sentirci contenti perché così puniamo meglio i detenuti? È un po’ misero, perché vivere una vita pensando di vendicarsi su qualcuno che ha fatto del male non fa contento nessuno, neanche noi stessi. A mio avviso, non fa giustizia neanche a quelli che so essere i valori fondanti della Lega. Lungi da me fare l’esame dei valori della Lega, ma constato, ad esempio, che a questo proposta di legge, di cui sono il primo firmatario e che è un po’ la struttura portante di questo testo unificato, è anche firmato da due deputati leghisti. Con questo non voglio indicare i leghisti al biasimo dei colleghi ma solo per dire che, evidentemente, vi sono, all’interno del provvedimento, dei valori che sono quelli del lavoro e della sicurezza, che vanno insieme a quello della rieducazione.
Fino al regolamento del 1931 in effetti in Italia il lavoro era inteso esclusivamente come forma di espiazione. Pertanto, esso doveva anche essere fornito più o meno gratuitamente. Ma fu il Ministro Dino Grandi che nel 1941 promosse un altro tipo di impostazione. Si era in pieno fascismo ma lo stesso Giuliano Vassalli, in uno degli ultimi testi della sua vita, riconosceva e scriveva che «la bonifica umana» – così la chiamava Dino Grandi, rievocando con termini piuttosto agricoli e «mussoliniani» quello che voleva essere un progetto di rieducazione – era finalmente un inizio di riforma della vicenda carceraria in senso umano. «Voleva dire cambiare assolutamente il sistema penitenziario».
Questa impostazione cambia dal 1975. Sono già stati citati i successivi passi delle varie leggi. In particolare, con una di esse si è prevista la possibilità di svolgere un lavoro fuori dal carcere, cioè la possibilità, per i detenuti in semilibertà, di lavorare fuori dal carcere. Successivamente, la legge «Smuraglia» ha permesso il lavoro dentro il carcere. Oggi quanti sono i detenuti che usufruiscono della legge «Smuraglia»? Sono circa 1.200, di cui 800 dentro il carcere e 400 in semilibertà e così via.
Quanti sono in buona sostanza? Diciamo che anche se tutte le leggi, i regolamenti e l’articolo 1 della Costituzione, nel quale si prevede che l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro, prevedono il lavoro dei detenuti, in realtà, lavora un detenuto su quattro: il 25 per cento, e di questo 25 per cento circa l’85 per cento fa dei lavori finti, cioè fa dei lavori all’interno del carcere pagati dall’amministrazione carceraria: i lavori in cucina, le pulizie e altri lavori interni che non creano vera professionalità, ma servono solo ad occupare il tempo. C’è soltanto il 15 per cento di lavoro autentico, ma questo lavoro autentico è un seme preziosissimo per tutti e questo è ciò che si vorrebbe affermare ulteriormente con questa legge.
Rispetto alla legge cosiddetta Smuraglia cosa c’è in più? C’è il fatto che si è capito che è tanto più efficace il lavoro nel carcere quando questo completa il percorso, cioè realizza un accompagnamento: da dentro il carcere e fuori dal carcere. Peraltro, tutto questo non è accaparramento delle cooperative ma, sulla base di quello che alla fine credo che approveremo, le aziende private potranno attingere da questo capitale umano, che non è qualcosa di negativo o di nefasto. La dignità della persona vale sempre, qualunque cosa abbia fatto. Se non siamo d’accordo su questo principio è inutile parlarne e, se non si punta alla rieducazione, tutta la vicenda carceraria si tramuta in un astio terrificante che pagheremo tutti e pagherà soprattutto il carcerato perché reiterare il male è un male per chi lo commette – e questo lo sappiamo tutti, basta parlare con qualunque carcerato un po’ cosciente – ma è un male che pagheremo anche noi.
Se adesso facciamo una riforma e giustamente costruiamo carceri per 600 milioni di euro, come abbiamo deciso, e non spendiamo qualche milione per far sì che queste prigioni non siano delle scatole dove si crea e si alleva la «bestia umana» che vuole vendicarsi, allora non vale neanche la pena costruirle, meglio lasciare spazio alle impiccagioni, lo dico paradossalmente. Questo è ciò che voglio dire.
Peraltro, non si deve aspettare che finisca la crisi perché o si cambia ora o non si cambia mai – questa è una grande legge della natura umana – ed è importantissimo che l’idea della redenzione si concretizzi perché – come cantava Giorgio Gaber – «un’idea, finché resta un’idea, è soltanto un’astrazione», mentre noi abbiamo visto della vita all’opera e vogliamo sostenere questa vita all’opera per il bene di tutti
(Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Partito Democratico).
Aula dei deputati, Roma, 27 febbraio 2012
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