
La resistenza? Un mito
Tutti i popoli hanno bisogno di miti di fondazione. Nel dopoguerra, l’Italia ufficiale ha dato corpo al mito della Resistenza per ricostruire un’identità nazionale e per assolvere i suoi cittadini dalla colpa di essere stati in larghissima parte fascisti, scesi in guerra a fianco della Germania hitleriana. Sette anni fa usciva per Rizzoli un libretto di cento pagine dal titolo: “Il mito della Resistenza”: un autore di sinistra rivedeva correggendole le false verità storiche e le retoriche dell’unità antifascista sulle quali si era retta la Repubblica italiana, in particolar modo dai governi di centro-sinistra agli anni del brigatismo, sino al crollo del comunismo e a tangentopoli. Romolo Gobbi vi sosteneva che l’invenzione dell’arco costituzionale impedì il formarsi di una corretta dialettica tra maggioranza e opposizione e non permise l’alternarsi di partiti in contrapposizione tra loro, come in ogni democrazia compiuta. Il suo libro era mosso da una tesi provocatoria: dimostrare che un certo antifascismo “addormenta invece di rendere liberi”. La prima delle scomode evidenze antiretoriche fu la constatazione di come la Resistenza fosse diventata un mito attraverso un processo di allontanamento e marmorizzazione teso a cristallizzare gli eventi e a renderli “infalsificabili”, come direbbe Popper. Dal vaglio storico, le vicende dei partigiani escono ridimensionate, spoglie anche di quell’aura picaresca e compartecipe dei Fenoglio, Calvino, Viganò. La Resistenza, dalla vicinanza “romanzesca” al sentire popolare, venne innalzata dai suoi stessi reduci alla statuaria posa dell’“epica” cioè del “mito”: al punto che anche gli ex-comunisti hanno infine tagliato i ponti con il passato per accedere al potere. “Gli unici che si attardano su questo terreno” scrive Gobbi “sono gli ex membri del Partito d’Azione e i loro eredi, che vogliono riaffermare la legittimità del loro ruolo di fustigatori del sistema politico sorto dalla Resistenza, da cui si autoesclusero, perché non avevano niente da proporre di diverso da quello che proponevano gli altri. Essi, dopo la diaspora nei vari partiti e la sistemazione nei vari ruoli dell’establishment, continuano a rivendicare una loro funzione politica in nome del binomio socialismo e liberismo”, cioè di un “nuovo”, come disse Vittorio Foa, fatto di cose vecchissime. Per liberarsi dal vecchiume ideologico, l’autore intraprende una critica della Resistenza davvero inusuale: usa le “armi dialogiche del romanzo e quelle analitiche della teoria della complessità” per smontare l’apparato dell’antifascismo eterno. Cioè quella fobia che paventa rigurgiti mussoliniani anche quarant’anni dopo lo sparo dell’ultimo colpo dei Gappisti e dell’ultima eliminazione fisica dei gerarchi nel “triangolo della morte” in Emilia. Perfino il francese e gauchista Edgar Morin è giunto a domandarsi (era ora) quali danni allo sviluppo culturale dell’Europa siano stati arrecati dall’antifascismo radicale, per il quale “ogni dittatura è stata considerata come fascista… ogni provvedimento e addirittuta ogni atteggiamento autoritario sono stati denunciati come fascisti”. L’itinerario demistificatorio di Gobbi rivisita gli scioperi del marzo 1943, il 25 luglio e l’8 settembre, e il suo confronto con i dati storici reali ridimensiona l’esaltazione dei cronisti partigiani: c’è un popolo che protesta per il pane o per il salario o per il rifiuto della guerra, mai per poter cantare O bella ciao. I partigiani sulle montagne erano gruppuscoli sparuti: alcuni a Boves nel cuneese, altri sull’Appennino tosco-emiliano, qualcuno in Veneto. I grandi ideali strombazzati dopo la Liberazione furono in realtà opportunismi o svolte del caso: il Partigiano Johnny di Beppe Fenoglio s’imbatte nei compagni temendo invece una retata; il piccolo Pin del Sentiero dei nidi di ragno di Italo Calvino diventa partigiano per una scommessa coi gappisti dell’osteria; la protagonista de L’Agnese va a morire segue i partigiani perché aveva spaccato la testa al tedesco che le uccise la gatta nera. A ciò si aggiunga che, tra il ’43 e il ’44, la segreteria del Pci clandestino, a Roma, non aveva una linea precisa: Giorgio Amendola tentò invano di dissuadere Giaime Pintor dalla temeraria azione che lo vedrà morire precocemente. Il viaggio dentro il mito resistenziale ribalta quanto detto e ripetuto dai Longo, dai Battaglia e dai Pertini sull’atteggiamento di operai, industriali e contadini nei confronti della lotta partigiana. Nemmeno il Corpo Volontari della Libertà (Cvl) fondato nell’estate del ’44, seppe organizzare una guerriglia che agli Alleati servì unicamente per creare scompiglio nelle retrovie dei tedeschi nel Nord Italia. Più che di partigiani dovremmo parlare di avventurieri, oscillanti tra rosso e nero, come Nino ne La storia di Elsa Morante: Calvino stesso ammise che “per molti miei coetanei, era stato solo il caso a decidere da che parte dovessero combattere; per molti le parti tutt’a un tratto si invertivano, da repubblichini diventavano partigiani o viceversa”. Se volessimo dirla tutta, dovremmo riferire che pare, forse, che ii premio Nobel Dario Fo a suo tempo fosse repubblichino e con la camicia nera fu qualche tempo anche a Monza, di stanza in un vicolo del centro città non distante dal punto da cui sto scrivendo. Pettegolezzi. Perché riaprire vecchi album di foto ingiallite? Lo studio di Gobbi sembra volerci dire che chi ristabilisce la scomoda verità del passato può ricomnciare a costruire una società nel presente; oggi sta avvenendo il contrario: il presente è scomodo in quanto fondato su menzogne ripetute. I suoi bersagli sono infatti gli attuali potenti del Partito d’Azione e i “riformisti forti”, ancora attardati su chimerici progetti di una socialdemocrazia dal volto umano. Noi che la Resistenza la stiamo facendo adesso, sfuggiamo ai ricatti di uno Stato che vorrebbe ci inginocchiassimo di fronte ai miti che meritano irriverenza. Lavoriamo invece per una ricostruzione della vita quotidiana libera dai Pianificatori dal cuore vuoto: siamo ribelli, non come quanti cinsero al collo il fazzoletto rosso, ma come “padri di famiglia, i veri avventurieri del giorno d’oggi”.
*Torino nel 1937, ha fatto parte delle riviste “Quaderni rossi”, “Classe operaia”, “Contropiano” e dei relativi gruppi.
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