
La sfacciata ignoranza di chi non consente ai gay di sentirsi malati e alla droga di essere pericolosa
Da vecchio laico, con senso di pudore verso le grandi parole, faccio anche fatica a dirlo. Ma ciò che impiglia il dibattito in Italia, e la sua funzione informativa ed educativa, è il nostro disprezzo per la verità. L’ignoranza, evidente e fonte di gaffe a catena, copre questa repulsione. Siamo, sì, ignoranti della realtà, ma perché non vogliamo vederla e accettare che metta in pericolo la nostra immagine consolidata e le ideologie (gli Idola) che le danno consistenza e visibilità. Non vogliamo sapere ciò che potrebbe farci cambiare, e quindi crescere. Cioè (in ogni campo, scientifico, affettivo e religioso) la verità. La sua rivelazione è sempre la smentita di una falsità precedente, alla quale una parte di noi è fatalmente affezionata.
Alla signora Livia Turco, smentita e annullata dal Tar, sarebbe bastato leggere le relazioni sullo stato delle tossicodipendenze in Italia che il precedente ministro per la Solidarietà sociale, Roberto Maroni, aveva presentato in ognuno degli anni del governo Berlusconi per sapere che quella sulle droghe “leggere” era una misura sbagliata e pericolosa. Una misura che dava un messaggio sdrammatizzante in un momento storico nel quale invece, in tutto l’Occidente, la cannabis è probabilmente il più diffuso pericolo per la salute psicofisica dei nostri figli. Il ministro Paolo Ferrero, che va all’Onu a chiedere la depenalizzazione delle droghe, è uno che non si legge i rapporti dell’Onu stessa. Cosa che invece fa l’Independent, dimostrando un atteggiamento senza preconcetti verso (almeno questa) verità. E chiedendo, quindi, scusa per la campagna portata avanti in passato a favore della depenalizzazione dalla cannabis in Inghilterra, ammettendo di non aver tenuto conto dei dati disponibili, che ne dimostravano l’altissima pericolosità.
Disprezzo per la verità è anche minarne la strada. Una strada tortuosa, faticosa, in cui l’uomo porta i suoi affetti, ma anche le sue fragilità e incapacità di realizzarle. La sua sofferente ambiguità, scomoda per ogni veloce certezza. Così, a bilanciare una pagina in cui la Cei prende posizione sui Dico, il Corriere della Sera del 22 marzo presenta un’opinione di Vittorio Lingiardi, straordinario di psicopatologia alla Sapienza di Roma, che, a proposito dei terapeuti che accettano di prendere in cura persone omosessuali, ripete slogan che coprono la realtà della complessa domanda di terapia. «L’omosessuale come malato da curare, una teoria patologizzante cancellata dal Manuale diagnostico delle malattie mentali dal 1973. D’altra parte a nessuno verrebbe in mente di riconvertirsi nell’altro senso: sono etero e voglio diventare gay». Però non è così. Nell’attuale DSM-IV-TR (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) l’omosessualità “distonica”, indesiderata e in conflitto con l’Io, è presente, tra i disagi, col numero F.52.9. E di etero scontenti, che si domandano se il loro orientamento non sia invece quello omo, ce ne sono tanti. E, come i loro fratelli che hanno il problema opposto, vanno accolti e accompagnati a riconoscere il senso di cui sono portatori.
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