La stangata non è un compromesso con Dracula, ma una scelta politica

Che finanziaria è, quella del governo Prodi? Una finanziaria che ritocca pesantemente le aliquote del prelievo fiscale sulle persone fisiche, ma allarga abbondantemente i cordoni per le fasce basse reintroducendo i meccanismi di detrazione invece che di deduzione, sui quali si basava il sistema Tremonti. Una finanziaria che delude le imprese sul versante dei tanto promessi punti di cuneo fiscale in meno, e che introduce invece il nuovo, complesso e (bisognerà vedere quanto) farraginoso meccanismo di incentivi basato su due nuovi fondi finanziari cari a Pierluigi Bersani. Una finanziaria che aggrava per miliardi di euro il prelievo su professionisti e autonomi con gli studi di settore, e che alza i contributi sociali per i lavoratori autonomi e parasubordinati. Una finanziaria che sui meccanismi di contenimento della spesa centrale vede il ministro Tommaso Padoa-Schioppa spuntare qualche buon punto, ma con le vaste e dolorose eccezioni di settori come scuola e sanità, in cui il criterio della preferenza del personale continua per il centrosinistra a prevalere su quello della qualità e della libertà dei servizi da offrire secondo il criterio della sussidiarietà, della massima efficienza in capo a chi sa far meglio. Una finanziaria che sul patto di stabilità interna sconta l’impossibilità per l’Unione di un vero e proprio scontro a muso duro con le Autonomie, e che finirà dunque per far rispettare i saldi soprattutto con maggiori quote parte locali di tributi erariali, Ire e Irap.
Una finanziaria, detta in due parole, che dichiara correzioni ai saldi di spesa pubblica per 15 miliardi, ma che difficilmente li otterrà senza nuove correzioni, e che in realtà spera che tra crescita dell’economia e maggior gettito da stretta fiscale non sia il fronte della spesa quello chiamato a garantire un rilevante contributo a scendere sotto il 3 per cento di deficit nel 2007.
Il giudizio complessivo da dare, almeno per chi è liberista, è che si va nella direzione opposta a quella della maggior crescita di cui si avvantaggiano i paesi a economia di mercato: chi corre di più, ha meno tasse di noi; meno strumenti d’incentivo industriale dirigisti, disciplinati e amministrati dal centro; più flessibilità nel mercato del lavoro mentre con questa finanziaria si fa un netto passo indietro rispetto alla legge Biagi. Resta da vedere quanti consensi porterà all’Unione il sapore tanto fortemente favorevole alla redistribuzione dei redditi impresso coi provvedimenti fiscali, e quanto invece non si rivelerà un boomerang la scelta di impostare una vera e propria “guerra ai ricchi” identificati con redditi mensili tanto modesti. Il segno politico, invece, è un altro. Bisogna smetterla di scrivere che Prodi è prigioniero di una minoranza antagonista ed estrema rispetto a una maggioranza riformista che resta inspiegabilmente silente (anche se Rutelli e Fassino negli ultimi giorni si sono fatti sentire contro le ipotesi fiscali più “draculiste”). Non è così. In realtà la somma di Rifondazione, Verdi, Pdci e compagnia è non solo politicamente, ma anche numericamente prevalente nell’Unione. I riformisti che credono al mercato – sia pure “sociale” – sono non più dell’8 o 9 per cento rispetto al 19 per cento dei voti diessini, e non più dell’8 o 9 per cento sul totale della Margherita. In altre parole, sono minoranza rispetto al 49,8 per cento dei voti dell’Unione. Con questa finanziaria, infatti, si vede.

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