
La preghiera del mattino
La strategia della Meloni sul lavoro spiegata agli antimeloniani isterici

Sul sito di Tgcom 24 si scrive: «Giorgia Meloni ha incontrato i sindacati in vista del Consiglio dei ministri sul dl Lavoro in programma il primo maggio alle 11: “Prenderemo provvedimenti utili per il mondo del lavoro, che variamo in un giorno simbolico e sui quali riteniamo utile un confronto preventivo con le organizzazioni sindacali”, ha detto il presidente del Consiglio. “Non è un appuntamento una tantum ma un ulteriore segnale del fatto che il governo ritiene il confronto con le parti sociali molto importante”, ha aggiunto il premier, che ha insistito sull’importanza di “un dialogo serio e costruttivo” anche sul Pnrr».
I media più istericamente antimeloniani hanno considerato le mosse del governo come una scelta tesa a separare la Cgil dalla Cisl. Dovrebbero invece riflettere sulla strategia che Palazzo Chigi ha messo in campo, in grande continuità soprattutto con quella studiata da Maurizio Sacconi prima come sottosegretario poi come ministro del Lavoro dopo il 2008, mirata a costruire un confronto tra le parti sociali fondato sulla cooperazione prima che sul conflitto. In tempi di accentuata globalizzazione del mercato del lavoro spesso la differenziazione tra conservatori e progressisti è passata anche da questa alternativa: liberalizzare i mercati e sostenere i lavoratori con lo Stato e le lotte, o governare le liberalizzazioni e aumentare il terreno di convergenza tra capitale e lavoro nelle imprese.
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Su Huffington Post Italia Carlotta Scozzari scrive: «Nel vertice la premier prova a tendere la mano giocando in extremis la carta delle decontribuzioni. Landini: “Misura va nella direzione richiesta ma è temporanea”. Bombardieri (Uil) porta con sé al tavolo una lavoratrice precaria. Sbarra (Cisl) resta più morbido: “Incontro utile”».
Landini fa il suo mestiere cercando di costruirsi un profilo di lotta e dialogo, deve però aver ben presente le contraddizioni che si aprono nel suo campo se insieme contesta il governo sul precariato e appoggia le posizioni europee filo-austerità.
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Sugli Stati generali Jacopo Tondelli scrive: «I casi sono due: o Elly ha sbagliato con ingenuità raccontando di questo elemento del suo staff, e sarebbe grave, oppure ha deciso che se ne parlasse accettando che se ne sarebbe parlato molto, perché anche così si diventa noti, e la notorietà serve alla popolarità (anche se non basta e non sono sinonimi, anzi). Qualora questo secondo fosse il caso, io personalmente non mi permetto di giudicare con sicurezza. Schlein cammina verso un tempo ignoto, in cui più dei gusti di chi scrive contano variabili strane. Le mie perplessità sulla traiettoria sono politiche, e non sarà un’armocromista a cambiare le tinte che, per ora, vedo nel cielo della sinistra italiana. Mi chiedo – ma sono all’antica – che effetto farà vedere rimbalzare sui social network questa parola strana e questa pratica esotica, associata al nome della leader del Pd, agli occhi del popolo della provincia impoverita e spaventata del nostro paese: quel popolo sempre più lontano dai radar dell’attenzione, e che poi quando va a votare preferisce sempre altri, e altro, rispetto a quel che il Pd propone. Ma sono dubbi uggiosi. I primi a difendere Elly e il suo diritto all’armocromia sono stati Matteo Renzi e Daniela Santanchè. Cercheremo di fidarci di loro».
Come spiega bene Tondelli, la Schlein deve riflettere (e spiegare articolatamente) quale è il suo punto sociale di riferimento: se i ceti affluenti di orientamento liberal o i lavoratori. Se si rivolge innanzi tutto agli elettori delle “zone a traffico limitato”, la Schelin fa bene ad armocromizzarsi ed è evidente che suscita la competizione con quelli che al centro e a destra, i Renzi e le Santanchè citati da Tondelli, vogliono influire su quell’elettorato, Se invece vuole costruire un movimento con al centro i lavoratori (pur alleabili naturalmente a settori di opinione pubblica liberal, però essendo “centrali”) deve correggere un po’ la sua immagine (e la sua linea), che deve essere un po’ più da Joe Biden e un po’ meno da Alexandria Ocasio-Cortez, riflettendo anche su scelte come il Mes che ai lavoratori parlano innanzi tutto di “austerità”.
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Su First online Claudio Velardi scrive: «Era il più bravo quando fu chiamato a Roma, nella segreteria nazionale della Fgci, dove io lo seguii come un soldatino, e insieme tenevamo testa ai romani che facevano il filo ai settantasettini, mentre noi volevamo essere comunisti sì, ma operativi e concreti (di destra eravamo definiti, e non la sentivamo come un’offesa…). Fu lui a scrivere – a 22, 23 anni – la 285, una legge sull’occupazione giovanile che ancora si ricorda come uno dei – pochi – risultati positivi della presenza del Pci nella maggioranza di governo».
Dopo il 1945 Palmiro Togliatti ha costruito in Italia quello strano animale che è stato il Pci: espressione di un movimento comunista che aveva il suo cuore oltre che un bel po’ della sua testa a Mosca, ma anche partito del tutto consapevole del suo ruolo nazionale e impegnato a sostenere, nei limiti che la sua natura gli consentiva, gli interessi del nostro paese. Sono evidenti le contraddizioni tra queste due anime citate e i problemi che queste contraddizioni hanno creato al nostro sistema economico-politico. Però se si cerca di ragionare criticamente e non da spacciatori di banalità, si può anche capire come in una realtà segnata da giganti quali Giovanni Battista Montini, Benedetto Croce, Raffaele Mattioli l’impostazione togliattiana sia riuscita a contribuire alla ricostruzione del Dopoguerra e a guidare la trasformazione della nostra economia da agricolo-industriale a industriale-agricola fino a farci diventare la quinta-sesta economia del mondo negli anni Ottanta, e ciò mettendo in campo anche una serie di dirigenti comunisti capaci di assumersi rilevanti responsabilità nazionali: da Giuseppe Di Vittorio a Giorgio Amendola, da Agostino Novella a Guido Fanti, da Gerardo Chiaromonte ad Aldo Bonaccini e Luciano Lama (cito alcuni tra quelli che ci hanno lasciato e non quelli ancora in vita). Umberto Minopoli (di cui scrive Velardi) è stato un giovane comunista figlio di questa storia, esponente di una generazione impegnata a contrastare gli esiti più disgreganti del ’68, a difendere la scienza contro le demagogie, a costruire una seria politica per il lavoro. E forse proprio per questa sua serietà non ha trovato spazio nell’ultima fase del Pci, quando il complicatissimo compromesso togliattiano tra missione palingenetica malamente impianta su quel fallimento che è stata l’Unione Sovietica e realismo riformistico attento agli interessi nazionali, non è stato più possibile. Riflettere su Minopoli per me, oltre che rendere omaggio a un caro amico scomparso, è anche occasione per continuare nello sforzo di ragionare criticamente sul passato, anche per costruire così un futuro un po’ più decente.
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