
La striscia di sangue
Gaza
Hamulot. Una parola, un simbolo. Simbolo del degrado, della disperazione, del bisogno di certezze che né la politica né i gruppi armati sanno più dare. “Hamulot” significa più o meno clan, gruppo di famiglie, cricca, tribù. «Non sarà un simbolo di civiltà – dice a Tempi Ahmad, 35 anni, laureato in ingegneria in Egitto e ovviamente disoccupato – ma almeno è una garanzia. Qui nessuno si fida più di Hamas, di Fatah né, tantomeno, del governo del presidente Mahmoud Abbas o di quel che resta dell’Autorità nazionale palestinese. Qui per sopravvivere l’unica cosa importante, l’unica garanzia, è un hamulot forte e rispettato capace di garantire la tua sicurezza, di difenderti dai rapimenti, di pagare se qualcuno ti arresta, di liberarti se ti catturano». Hamulot, ovvero la logica della sopravvivenza. Questa è diventata Gaza. E tutto il resto non conta. Loro i “gaziani” lo sanno bene. Lo sanno ancora meglio dopo l’inferno delle ultime due settimane. In quei quindici giorni di terrore gli armati di Hamas e Fatah hanno ucciso cinquanta palestinesi. Poi le incursioni degli aerei e degli elicotteri israeliani ne hanno fatti fuori altri trentacinque. «Ma almeno quelli sono morti. Pensa ai feriti: i miei vicini di casa hanno un figlio, ha perso le gambe in un bombardamento. Un tempo c’erano le Nazioni Unite, c’erano i soldi dell’Autorità palestinese, c’erano gli aiuti. Oggi non c’è più nessuno. Chi li aiuta? Gli europei e gli americani delle organizzazioni umanitarie sono fuggiti per paura dei rapimenti, per timore degli scontri e loro sono rimasti soli. Io porto loro qualcosa da mangiare, ma gli unici che possono aiutarli sono i membri del loro hamulot, della loro famiglia», spiega Mohammed Badrasawi, 43 anni, con il cinismo più ruvido di tutta la sabbia della Striscia mentre rimette in ordine gli scaffali del suo piccolo supermarket, riaperto dopo settimane di forzata chiusura.
Insomma, mentre la speranza si sgretola, mentre la politica affonda e le diverse e contrapposte “autorità” fanno i conti con la strisciante guerra civile e il crescente di-sprezzo della gente comune, Gaza riscopre famiglie e padrini. La rinascita di questo sistema sociale di tipo tradizionale e mafioso è anche il sintomo del degrado di qualsiasi autorità e di qualsiasi legge. Un sistema mafioso dove i traffici clandestini si mescolano con la violenza, con la giustizia sommaria e con i contagi del fanatismo religioso più vicino ad al Qaeda.
L’esempio più classico e più degenerato del sistema degli hamulot è quello del clan di Mumtaz Dormush, il meno che trentenne padrino di quell’Esercito Islamico considerato, a torto o a ragione, la prima autentica cellula “qaedista” nella Striscia di Gaza, il primo vero nucleo di militanti palestinesi fedeli a Osama Bin Laden. Famoso per aver rivendicato assieme ad Hamas, nel giugno 2006, il rapimento del caporale israeliano Gilad Shalit, l’Esercito dell’Islam è sostanzialmente un’espressione del clan dei Dormush. Arricchitisi controllando i traffici di armi, ferro e cavalli, i Dormush acquisiscono dignità politica contribuendo alla formazione nel 2001 dei Comitati di Resistenza Popolare, un’organizzazione armata che riunisce militanti e transfughi di Hamas, Fatah e Jihad Islamico. Ma mentre i Comitati restano nelle mani dei fratelli Zakariah e Muataz, l’Esercito Islamico diventa la struttura armata di Mumtaz Dormush, vera “anima nera” di questa famiglia di mezzi delinquenti e mezzi terroristi. Entrato giovanissimo nella Sicurezza Preventiva di Mohammed Dahlan a Gaza ed espulso per motivi disciplinari, Mumtaz transita nei Comitati di Resistenza Popolare e acquista potere e sinistra celebrità guidando, nel 2005, la spietata eliminazione di Moussa Arafat, il cugino del defunto rais comandante dell’intelligence militare di Fatah. Espulso anche dai Comitati, fonda l’Esercito dell’Islam e lavora d’intesa con Hamas. Il sodalizio si rompe verso la fine del 2006. Il governo fondamentalista, costretto a pagare due milioni di dollari per la liberazione di due giornalisti della rete americana Fox Tv rapiti da Mumtaz, cerca di rimettere in riga l’incontrollabile alleato. Da allora è guerra aperta. Ai primi di gennaio Mumtaz uccide due militanti di Hamas, ne rapisce altri quattro, accusa il governo di Hamas di posizioni anti-islamiche e inizia la rotta di avvicinamento verso al Qaeda.
Tra jihadismo islamico e banditi
«Nessuno sa dire veramente se Osama Bin Laden e il suo braccio destro Ayman Zawahiri abbiano formalmente accreditato l’Esercito dell’Islam, ma la mancanza di scrupoli di Dormush e la spregiudicata voglia di emergere della sua organizzazione ne fanno un gruppo che conta e di cui molti hanno paura», spiega Islam, un ex militante dei Comitati oggi uscito dalla lotta armata, ma ancora molto vicino al clan dei Mumtaz. Di certo ormai l’Esercito Islamico è diventato il principale propagatore degli “ideali” jihadisti nella Striscia di Gaza e non esita a minacciare, attaccare o chiudere con bombe e attentati tutti i locali sospettati di vendere alcolici o di favorire “distrazioni” non in linea con la più rigorosa morale islamica. E fino a oggi nessuno è riuscito né a liberare, né ad avviare una trattativa per ottenere il rilascio di Alan Johnston, il 44enne corrispondente della Bbc rapito il 12 marzo scorso e quasi certamente detenuto dagli uomini di Mumtaz e dell’Esercito Islamico.
Ma la deriva jihadista non è che la punta di quell’iceberg di odio e insicurezza generato dal potere degli hamulot. C’è un altro grande rischio che alimenta la guerra civile palestinese, l’estrema insicurezza sociale. «Un tempo a Gaza potevi stare sicuro, l’unico rischio erano gli israeliani, se capitavi nel mezzo di un’operazione potevi morire o perdere una gamba, un occhio o un braccio, ma nessun palestinese ti avrebbe fatto del male. Oggi la vita non vale più niente e le incursioni israeliane sono solo uno fra i mille rischi della nostra vita quotidiana», racconta Amr Laub, 34enne proprietario di un ristorante senza più clienti vicino alla zona del Parlamento, desertificata dai recenti scontri. «Non sai più chi ti può sparare addosso. Puoi finire nel fuoco incrociato di militanti di Hamas e della Sicurezza Preventiva di Fatah, o essere fatto fuori per vendetta perché sei parente di qualcuno che ha ucciso un esponente dell’altro clan. La nostra vita non vale più niente perché nessuno crede più in niente», racconta disperato Yad Aziz, 35enne farmacista di Gaza City.
Anche Hamas si è spaccata
E anche Hamas, la formazione fondamentalista che un tempo raccoglieva i consensi della popolazione grazie alla sua rete di ospedali, centri di assistenza agli orfani, asili, scuole e centri di solidarietà per le famiglie più povere, stenta a mantenere il suo controllo sulla società. «Il problema di Hamas è diventato lo stesso di Fatah», dice Ismail. «Un tempo era apparentemente unito, ma una volta giunto al potere ha incominciato a frazionarsi a dividersi. Il vero duro colpo per Hamas qui a Gaza è stata l’uccisione per mano d’Israele dello sceicco Yassin, il padre spirituale del movimento, e del suo successore Abdel Aziz Rantisi. Da allora nessuno controlla appieno il movimento e le divisioni hanno incominciato a emergere». L’altro duro colpo è stato la perdita di Mohammed Deif, l’imprendibile capo delle Brigate Ezzedin al Qassam, sopravvissuto la scorsa estate a un bombardamento israeliano ma ridotto a un troncone umano. Da allora anche le Brigate sono un gruppo alla deriva e privo di controllo alla mercé dei suoi diversi comandanti. Un gruppo su cui non esercita più alcuna autorità neppure la dirigenza di Khaled Meshaal, in esilio a Damasco. Sul piano politico Hamas sconta invece le divisioni tra lo stesso Meshaal, succube dei piani di Damasco, l’ala politica del premier Ismail Haniyeh e le tendenze iper-integraliste di Mashmoud Zahar, l’ex ministro degli Esteri fedele alle fazioni più radicali dei Fratelli Musulmani lasciato fuori dal nuovo governo di Unità Nazionale. L’unica vera forza ancora nelle mani di Hamas è quella militare. Grazie all’addestramento all’estero, forse in Iran, delle sue giovani leve e alle armi e munizioni contrabbandate a Gaza dal Sinai, l’organizzazione ha dimostrato di saper avere la meglio sulle più numerose milizie di Fatah, addestrate da inglesi e americani.
«Meglio sotto i colpi del nemico»
Ma quello scontro sanguinoso, «il primo nella storia del nostro popolo», sottolinea l’analista palestinese Talal Okal, è anche il più pernicioso per la popolazione. «Qui a Rafah qualche giorno fa – racconta lo studente Doa Abu Harb, 20 anni – gli israeliani ci hanno bombardato. Ci sono stati morti e feriti, eppure mi sento quasi più sicuro qui, sotto i colpi del nemico, che all’Università di Gaza City. Per arrivare lì devo passare tra gruppi di uomini con il passamontagna che ti interrogano e minacciano di portarti via. Nemmeno sai chi siano, sai solo che da un momento all’altro potrebbero iniziare a sparare e tu non sapresti neppure dove scappare. Una settimana fa hanno messo i kalashnikov dentro il taxi che ci portava a casa, ce li hanno puntati in faccia, ci hanno minacciato. Ancora oggi non so chi fossero e cosa volessero. So solo che la mia vita non vale più niente».
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!