Tentar (un giudizio) non nuoce

La violenza politica non è mai frutto del caso

Di Raffaele Cattaneo
20 Luglio 2024
È sempre una conseguenza di un ambiente carico di tensione e di divisione. Dobbiamo promuovere una cultura del rispetto e della comprensione reciproca
I soccorsi al canidato presidente Donal Trump, Butler, Pennsylvania, 13 luglio 2024 (Ansa)
I soccorsi al canidato presidente Donal Trump, Butler, Pennsylvania, 13 luglio 2024 (Ansa)

Ha ragione il direttore di Tempi, Emanuele Boffi. Perché è così difficile dire: volevano uccidere Trump?

È vero non ci sono riusciti. La sua istantanea con il pugno alzato, il rivolo di sangue che gli copre la faccia, scendendo dall’orecchio colpito e quel cielo terso dietro di lui, rappresenta un’immagine iconica di straordinaria efficacia mediatica. L’evento probabilmente gli consegnerà la vittoria, considerata la debolezza del suo avversario.

Ma tutto ciò prescinde da un assunto: per un centimetro non è morto. Eppure, nonostante la notizia con tutti i dettagli, che evito di citare per non apparire ridondante, copre l’intera informazione. Dai giornali cartacei, al web, ai social, alle tv, alle radio. Sorge il sospetto che la morte, velata dal pulviscolo del media, non produca più alcuno scandalo o sgomento. Ognuno di noi guarda le immagini, dietro lo schermo, con lo stesso voyeurismo che alza gli ascolti di “Quarto Grado” o di “Chi la visto?”.

«Non siamo fatti per morire, ma per nascere», scriveva Hannah Arendt, ma oggi il nostro cuore appare inaridito, distratto, senza fremiti. Ogni giorno ascoltiamo di morti innocenti, di famiglie smembrate, dentro il quotidiano vivere, prima delle notizie sul caldo estivo, o di qualche inopportuna dichiarazione di un parvenu della politica estiva. A tutto questo però non possiamo arrenderci, acquietarci, facendo finta che niente ci riguarda.

Nel resto del mondo

Ora, se il tentato omicidio di Trump ha ingolfato l’intero panorama dell’informazione, non possiamo celare che la violenza politica sta dilagando in tutto il mondo, spesso silenziosamente, senza la dovuta attenzione che dovrebbe avere.

Solo qualche giorno fa, un raid israeliano improvviso e violentissimo su Khan Yunis, ha provocato 90 vittime complessive e 289 feriti, centrando un edificio recintato da alberi in mezzo ad altre abitazioni civili ad al-Mawasi, definita “zona umanitaria”. Altre 15 persone sono state uccise in un altro bombardamento israeliano contro una scuola gestita dall’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi nel campo di Nuseirat, nel centro di Gaza.

In Sudan in questi giorni, almeno 27 persone sono morte e 130 sono rimaste ferite nei combattimenti tra l’esercito sudanese e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) ad Al Fashir, nella regione occidentale del Darfur, a più di un anno dall’inizio della guerra civile. Ad oggi si contano 15mila morti e 8 milioni di profughi.

La violenza politica

Il fatto tragico è che i morti senza nome rimangono numeri. Una ragioneria funeraria spesso sottaciuta dai media tradizionali che non colpisce più l’attenzione dell’occidente. Ma attualmente ci sono ben 56 conflitti nel mondo e non solo quello in Ucraina o tra Israele e Palestina. È un’ecatombe di morte, e contemporaneamente un eccidio della politica. La morte e la violenza sono sempre drammatiche e inaccettabili, indipendentemente da chi ne sia vittima. Dobbiamo riconoscere che ogni vita umana è sacra e inviolabile, e non ci sono vite che valgono più di altre.

È importante sottolinearlo e ciò dovrebbe coinvolgere tutti perché la violenza politica non è mai un caso isolato. Spesso, episodi violenti sono il culmine di un clima di polarizzazione estrema e di contrapposizione che si sviluppa attraverso dichiarazioni verbali e comportamenti nel dibattito politico. Questa atmosfera esasperata può portare individui estremisti a compiere atti violenti.

L’attentato a Giovanni Poalo II

È fondamentale comprendere che la violenza è sempre una conseguenza di un ambiente carico di tensione e di divisione. Ricordo chiaramente lo scontro ideologico che avvenne nella mia classe di V Liceo quando nel 1981 spararono a papa Giovanni Paolo II. Quel giorno sostenni che il gesto dell’attentatore Ali Agca non fosse figlio del caso, ma di un clima verbale e politico di legittimazione della violenza persino contro il Papa. Venni attaccato da tutti, compagni e professori.

Oggi, quarant’anni dopo, continuo a pensarla allo stesso modo. Ancora oggi ritengo che nei discorsi o negli articoli gli attacchi diretti e le iperboli verbali siano pericolose e che gli appelli a riportare equilibrio e moderazione nel confronto politico non siano inutili. La moderazione, il dialogo e il rispetto reciproco sono essenziali per evitare che episodi di violenza si moltiplichino.

Dobbiamo impegnarci a depolarizzare il dibattito politico e a promuovere una cultura del rispetto e della comprensione reciproca. Purtroppo, dappertutto sembra prevalere il contrario. La violenza in politica è un fenomeno complesso ma richiede una riflessione profonda e un impegno collettivo per essere contrastata. Dobbiamo riconoscere la sacralità di ogni vita umana e lavorare per un dibattito politico più equilibrato e rispettoso. Solo così potremo costruire una società più giusta e pacifica.

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