The Lady di Luc Besson. Dietro una grande donna c’è un grande uomo

Di Rodolfo Casadei
26 Marzo 2012
Esce oggi nelle sale italiane il film sulla storia di Aung San Suu Kyi, eroina birmana. Film perfetto per la ricostruzione dell'ambiente fisico e umano, ma carente nel macchiettistico nel dettagliare alcuni personaggi. Eppure contiene una sorpresa imprevista: la vicenda di Michael Aris, marito che si sacrifica affinché il destino dell'amata possa compiersi.

Se nel film di Luc Besson che esce oggi nelle sale italiane cercate la chiave per comprendere il felice enigma di Aung San Suu Kyi, resterete delusi. Un regista di film d’azione e un’attrice altrettanto volante come Michelle Yeoh (la Bondgirl de “Il domani non muore mai”, la guerriera de “La tigre e il dragone”) non potevano essere d’aiuto, per quanto si siano lasciati plasmare dalla storia che li ha affascinati e ci abbiano dato qualcosa di molto diverso da ciò a cui eravamo abituati da parte loro.

Ma se invece volete aggiungere un altro capitolo al vostro libro interiore sui miracoli che l’amore fra un uomo e una donna può compiere, allora “The Lady” è film che fa per voi, anche se il titolo risulterà alla fine insufficiente e fuorviante. Come una donna coltissima ma estranea alla politica attiva fino ai 43 anni di età, lontana dal suo paese per la maggior parte della sua vita adulta, abbia potuto diventare l’incarnazione della speranza di libertà per milioni di concittadini e un’icona del movimento di cambiamento politico che la resistenza morale al male è in grado di esprimere, è mistero che un film costruito per piacere a tutti i palati non può illuminare.

Ci sarebbe da scavare nei meandri del buddhismo theravada, della psicologia collettiva birmana, della priorità del riferimento familiare nella cultura popolare (i genitori di Aung sono personaggi centrali nella storia della Birmania indipendente), della formazione ecumenica di Aung San Suu Kyi. Il film punta su una ricostruzione perfetta dell’ambiente fisico e umano: gli edifici della capitale, i luoghi di ritrovo, la casa della protagonista, i paesaggi circostanti; l’ammirazione venerante dei seguaci di Aung, i modi brutali e la mentalità superstiziosa dei militari. L’immersione è senza falle fino all’ultimo tatuaggio, fino all’ultima carrozzeria dell’ultimo veicolo civile o militare che si vede sfilare.

Quando si passa ai personaggi principali, parecchie cose cigolano. Niente da dire sulla recitazione dei singoli, ma è l’insieme che non convince. La Yeoh è espressiva, non c’è dubbio: sa essere fragile e risoluta nello stesso tempo, passa dall’imperturbabilità buddhista a un’emotività misurata ma completa di tutto lo spettro degli umani sentimenti. Ma marito e figli sono succubi del suo carisma con un’arrendevolezza che confina con la stupidità o con la macchietta. Il problema è David Thewlis, che recita con la stessa espressione che esibisce nella saga di Harry Potter nei panni di Remus Lupin docente di difesa contro le arti oscure. Ma qui non ci sono dissennatori o lupi mannari da respingere, e per due terzi di film fa la figura del sempliciotto finito dentro a una faccenda più grande di lui. Ovvero dell’attore comico che ha sbagliato film.

La sua fortuna è che però il suo personaggio è Michael Aris, il marito della San Suu Kyi, e questo gli consente di uscire alla grandissima alla distanza. Sia chi conosce la storia dell’eroina birmana che chi la ignora e ha pagato il biglietto solo per il nome dell’attrice e del regista, ha un soprassalto quando si rende conto che Aung San Suu Kyi è stata ed è quello che è grazie al sacrificio di Michael. Se dopo un braccio di ferro durato 24 anni fra pochi giorni potrà partecipare alle elezioni che le sono state lungamente negate, potrà entrare deputata nel parlamento nazionale e forse un giorno sarà a capo dello Stato, è solo perché un professore di culture himalayane nonché padre di due figli ha accettato di sposare in lei il destino di un intero popolo.
Nelle foto il vero Michael Aris ha uno sguardo sufficientemente freddo e malizioso, niente a che fare con l’aria da bonaccione del Thewlis-Aris. E nemmeno niente a che fare con l’espressione ispirata del martire o del profeta.

Ma il suo cuore è rivelato tutto dai suoi atti: è il marito che accetta di morire senza avere accanto la moglie che non vede da tre anni e mezzo per non danneggiare irreparabilmente la lotta di lei per la libertà del popolo birmano. È vero che a partire dal 1988 aveva già accettato lunghe separazioni da lei, ma non poteva aspettarsi che gli sarebbe stato, alla fine, chiesto tanto. Le locandine del film sottotitolano “L’amore per la libertà”, scambi di battute fra Aung e i militari evidenziano la drammaticità di una scelta che si impone fra gli affetti familiari e la passione politica. Sembra che al centro ci sia sempre e solo lei, The Lady, che sceglie l’amore per la libertà e sacrifica quello per i suoi cari col consenso dei suoi stoici familiari.
Non è affatto così: in Michael e Aung amore coniugale, amore per la libertà e amore per il popolo birmano coincidono. Non sono separabili, e di fatti nessuno riesce a separarli. C’è un dialogo in particolare nel quale Michael rassicura Aung che mostra dubbi sulla compatibilità dei differenti affetti.

“Amore al destino dell’altro” è espressione cristiana con cui spesso si commenta anche l’amore coniugale, ma che si attaglia perfettamente anche alla strana coppia cristiano-buddhista Michael-Aung (la seconda ha studiato in scuola metodiste e cattoliche, il primo ha letto un contributo di lei a un evento in memoria di Paolo VI). Michael ha incontrato Aung al college: nella sua esperienza umana c’è stata sincronia fra l’amore per le culture buddhiste e amore per una donna proveniente da un paese di cultura buddhista. L’amore per il buddhismo non è rimasto intellettuale, si è incarnato in un rapporto umano. Per questa genesi del suo amore Michael ha potuto continuare a viverlo in pienezza anche quando Aung ha scelto la militanza politica: era uno sviluppo contemplato dalla stessa natura originaria dell’incontro da cui è nato quell’amore.

È difficile immaginare se e quanto i due figli abbiano compreso la natura del rapporto fra i genitori: da come Michael e Aung hanno agito, ci si immagina che fossero assolutamente convinti che quello che vivevano risultasse perfettamente trasparente ai figli. La vicenda esistenziale di questa coppia anglo-birmana inverte evidentemente il detto “dietro a ogni grande uomo c’è una grande donna”: qui è la grandezza della donna ad essere resa possibile dalla grandezza di un uomo che abbraccia il ruolo gregario con piena convinzione. Calpestando il politicamente corretto e accettando le conseguenze di ciò, osiamo dire che Michael acconsente a scambiare le qualità maschili con quelle femminili e di realizzarle fino in fondo.

È lui che accetta e promuove le decisioni del “capofamiglia”, che lo sostiene e lo incoraggia con le parole e coi silenzi, che si occupa materialmente e moralmente dei figli, che si muove in secondo piano e si compiace sinceramente del protagonismo del coniuge. In un parallelo con un’altra figura di coniuge che ha vissuto l’esperienza della separazione forzata dal partner a motivo di una prigionia politica, Michael Aris è l’anti-Winnie Mandela: mentre la moglie di Nelson Mandela ha trasformato la separazione forzata dal marito in un trampolino di lancio delle sue personali ambizioni, si è maschilizzata in una figura di ras spietato di Soweto circondato da guardie del corpo dalle tendenze criminali, ha rovinato vite di adolescenti dei quali non ha saputo essere né guida nè rifugio, invece Michael Aris è costantemente stato al servizio di Aung, non ha dato scandalo, ha allevato i figli, ha continuato a spendersi per gli studenti di cui era professore.
Un vero uomo che ha saputo essere anche una vera donna. Al di là di quanto il film riesce a comunicare. Dall’oscurità della sala si esce con la voglia di saperne di più intorno a quest’uomo. E di correggere il titolo del film: The Lady – and The Sir.
Twitter: @RodolfoCasadei

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