Largo alla devolution scolastica
Un rinnovato approccio alla modernizzazione del sistema dell’istruzione può fondarsi solo sul principio deIla libertà d’insegnamento e di educazione. Solo questo principio, infatti, è in grado di superare le contraddizioni del riformismo cui una gestione centralista e piramidale della pubblica istruzione si è ispirata. Oggi in Italia abbiamo più di 750 mila insegnanti che lavorano meno di 750 ore all’anno, per un rapporto di un professore ogni 9 alunni, contro lo standard europeo che tende ad un docente per almeno 20 studenti, con un carico annuo di circa 900 ore circa di lavoro. AI di là delle riforme strutturali che possono piacere o meno, il problema della nostra scuola disastrata sta tutto in queste cifre. Molti nei sindacati non vogliono neppure pensare di correggere questa stortura di fondo, come non c’è la volontà reale di accettare la sfida del merito e soprattutto quella di abbattere il tabù dell’intangibilità deI posto di lavoro, comunque sia stato acquisito.
Docenti umiliati dal governo nazionale
Proporre, dunque, ancora una volta aumenti di stipendio (pur in sè sacrosanti) a pioggia e cianciare di maggiore autonomia in materia scolastica come fa il governo senza affrontare il problema della dipendenza statale del personale è pura demagogia, considerato che la spesa per lo stesso ammonta a oltre il 97% del totale, il che rende impossibile qualsivoglia operazione sul piano degli investimenti. Anche le recenti polemiche di queste ultime settimane mi pare stiano a dimostrare come la politica del governo nazionale, soprattutto in questi ultimi anni, non abbia fatto che umiliare la classe insegnante, svilendone il ruolo e le potenzialità, attraverso un rinnovato rigurgito di centralismo e un burocraticismo che ha continuato a produrre danni sempre più gravi agli insegnanti stessi e, indirettamente, agli allievi e alle loro famiglie. La devoluzione dell’istruzione alle Regioni non potrà non partire da una esaltazione delle molteplici professionalità della classe docente – professionalità che devono ottenere i giusti e necessari riconoscimenti sia in termini di responsabilità riconosciute e valorizzate, sia in termini contrattuali e retributivi; tali professionalità devono perciò diventare l’elemento propulsivo di un autonomo sviluppo degli istituti scolastici. In tutti gli stati a vocazione federale il primo settore rivendicato dalle autonomie locali è ovunque la scuola (così in Germania) che, unitamente alla famiglia, rappresenta l’istituzione preposta a tramandare alle future generazioni la cuItura e lo stile di vita propri di nuclei di popolazione fra loro distinti dal punto di vista etnico, linguistico, religioso, socio- economico e territoriale. Le Regioni devono impegnarsi nel ricercare la più adeguata soluzione, che deve essere trovata in un delicato equilibrio fra quanto dovrà conservarsi allo Stato e quanto dovrà essere devoluto alle Regioni. Sino ad oggi in merito all’indicazione dei fini la competenza dello stato è stata assoluta. Per lo stato le scuole sono tutte uguali ovunque si trovino e in qualsiasi condizione si trovi o ad operare.
Autonomia, per ora, è soltanto una parola
I timidi accenni verso una diversificazione di compiti, per esempio, in ordine all’autonomia scolastica, sono ancora troppo limitati e, in ogni caso, rappresentano concessioni statali e non esercizio di poteri propri delle Regioni. Se, quindi, nell’indicazione dei fini dell’istruzione devono concorrere sia lo Stato che le Regioni, il primo non deve appropriarsi di tutto il tempo scuola (massimo 15/20 ore settimanali). Per quanto riguarda i flussi finanziari, le scuole dovrebbero ricevere i finanziamenti direttamente dalle Regioni e non per il tramite dell’amministrazione statale periferica, come vuole il federalismo fiscale. Una legge regionale dovrebbe fissare i parametri di assegnazione. Le spese, compresa quella obbligatoria per il personale disciplinata da contratti collettivi regionali, dovrebbero essere decise dalle singole scuole autonomamente senza vincoli di destinazione e con controlli sui bilanci solo a posteriori. Per quanto riguarda il personale scolastico, dovrebbe essere possibile assumere per chiamata diretta una percentuale di insegnanti sulla base delle necessità specifiche determinate dal piano dell’offerta formativa. Come tendenza generale, le Regioni dovrebbero favorire uno spostamento di risorse dalle spese fisse per il personale alle spese per investimenti. Invece la competenza statale dovrebbe passare dalla indicazione dei programmi, delle materie e degli orari, come è ora, a quella degli obiettivi minimi finali dei cicli di studio. In altri termini lo Stato dovrebbe limitarsi ad indicare le competenze e le conoscenze minime per rilasciare i titoli relativi ai diversi indirizzi di studio. Il tema delle condizioni per la parificazione dei titoli rinvia alla questione della parità scolastica. Il senso dei provvedimenti che in questi giorni le Regioni governate dalla Casa delle Libertà stanno attuando è la corretta interpretazione del dettato costituzionale, là dove esso sostiene che non si deve discriminare tra coloro che scelgono la scuola dello Stato e coloro che optano per le scuole libere (art. 33, comma 2). Infine, il traguardo di un vero federalismo scolastico comporta un processo graduale verso l’abolizione del valore legale del titolo di studi.
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