L’artigiano che (per l’Istat) non esiste, Rai e Taxi driver

Di Luigi Amicone
16 Giugno 1999
Lettere

Egregio Direttore, nei giorni scorsi l’Istat, Istituto nazionale di statistica, ha diffuso, allegandolo ad alcuni quotidiani economici, un opuscolo che riporta i dati di un Censimento Intermedio, aggiornato al 1996, che “fotografa la realtà del mondo produttivo del paese”. Nemmeno spulciando le note a margine, in nessuna delle venti pagine di tabelle e commenti vi è traccia della parola “artigianato” (né di termini derivati). Solo una sconsolante intuizione porta a dedurre che le centinaia di migliaia di imprese artigiane italiane, facilmente censibili perché la legge impone loro l’iscrizione ad appositi Albi Ufficiali, siano conteggiate, o meglio “occultate”, sotto diverse altre voci (servizi, attività manifatturiere, trasporti, costruzioni, informatica..). Tutto ciò lascia sconcertati e amareggiati pensando, ad esempio, che un “lettore europeo”, alla ricerca di notizie sulla realtà produttiva italiana, ricavi la convinzione che l’artigianato, nel paese dei mestieri, dell’arte e della creatività, non esiste proprio. Non è comunque questo l’unico segnale di un reiterato disinteresse delle Istituzioni, che si concretizza nelle determinata e colpevole scelta di non dare adeguato sostegno ad un settore che è patrimonio storico e offre enormi potenzialità di sviluppo a fronte di una comprovata crisi dell’industria. E così, ogni volta, ci troviamo a rinnovare questa denuncia. Non si rinnovano affatto, invece, i criteri di classificazione dell’Istat, specchio di scarsa considerazione a più alto livello, che diffonde a tappeto una “certificazione di scomparsa” di milioni di operatori.

Patrizia Cappellini, Vice-Presidente dell’Unione Artigiani della Provincia di Milano – C.L.A.A.I.

L’artigianato è l’anima di questo bel paese, l’Istat è invece un fenomeno statistico statale che vive di ufficialità e suggestioni politiche governative. Insomma è la Rai della statistica, offrirebbe dice, “di tutto, di più”, ma non il minimo servizio indispensabile – come nel caso del mancato computo dell’artigianato – che dovrebbe rendere ragione delle spese sostenute dal contribuente per mantenere i carrozzoni statali. Cara Cappellini, Tempi è della vostra schiatta artigiana, vi capisce bene e bene crediamo, voteremo insieme, domenica 13 giugno, uomini e forze politiche non stataliste.

Caro direttore, Le scrivo per riferirLe (quasi alla lettera) quanto ho sentito su Raiuno, durante il telegiornale delle ore 20.00, dell’1 giugno 1998: Sposini annuncia l’intervista in esclusiva a Scattone e Ferraro. Questa è la parte finale: D: Scattone, dopo la lettura della sentenza, lei e Ferraro siete rimasti da soli nell’aula bunker per circa una mezz’ora: cosa vi siete detti? Scattone: Io sono rimasto in silenzio, lui (riferendosi a Ferraro) ha imprecato! D: Cosa ha detto, Ferraro? Ferraro: ho imprecato un po contro tutto e tutti, in modo irripetibile. D: ci vuol fare qualche esempio?!? Ferraro: no … siamo in prima serata … non si può, in prima serata! Fine intervista. Fine anche del giornalismo televisivo o – almeno spero – di quello fatto così e – soprattutto – con i nostri soldi. Caro direttore, aspetto con ansia un Suo commento in proposito.

Massimiliano Perri, Milano Dovrebbe darci qualche ambascia non la schiuma, ma un pensiero: il pensiero di quando a quei 10 milioni di telespettatori ormai stanziali in prima serata (si tratti di Medici in famiglia, Commesse o Pavarotti) verrà offerto (via musica, fiction o talk-show ) sistematico suggerimento (tramite testimonial prezzolati qualsiasi: Lino Banfi ad esempio, splendido attore di film porcelloni di Prima Repubblica, oggi simpatico intellettual veltronista della Seconda e, per interessamento di Palazzo Chigi, fresco Cavalier di Gran Croce) che chi crede in qualcosa è un terrorista e che chiunque (singolo, gruppo, o una razza a caso) potrebbe per “ragioni di Stato” diventare un signor Igor Markevitch o, “fammi godere”, un fetentissimo serbo da bombardare. Nel suo saggio sul totalitarismo Hannah Arendt ha dimostrato che “il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più”.


Cari amici di Tempi, stimolato dal bell’articolo di Mereghetti (Tempi n.19) sul nazionalsocialismo quale radicalizzazione pragmatica del marxismo, volevo parlare di automobili. Lì per lì, posso capire la sorpresa: cosa c’entrano marxismo e nazismo con le auto? C’entrano, c’entrano. Ascoltavo pochi giorni fa una trasmissione radiofonica Rai che raccontava la vita dell’ingegner Porsche, dove si diceva che lo stesso fu “conteso dai nazionalsocialisti e dai comunisti francesi perché progettasse ‘l’auto del popolo’”. Dopo un attimo di sorpresa ho capito cosa c’era in gioco. Anche le ideologie dicono di avere cara la libertà, e cosa più della libertà di movimento rappresentava per le stesse un traguardo straordinario conquistato dalla tecnologia? Ecco allora il mezzo adeguato per le ideologie di massa: l’auto del popolo. Nonostante l’ormai avvenuta morte di quelle ideologie, non si può non riconoscere loro un carattere “profetico”: i due regimi in questione avevano già compreso che si può vendere alle masse, ormai secolarizzate, tecnologia per la felicità. Non mi soffermo a descrivere l’applicazione e gli effetti di questo criterio nella nostra società. Una cosa, però, mi ha fatto pensare: mentre alla Camera si discuteva di “fecondazione eterologa”, la sig.ra Cossutta rilasciava questa dichiarazione: “Se attraverso la tecnologia posso raggiungere un traguardo per la felicità, perché vietare la fecondazione eterologa, o quant’altro, a chi la desidera?”. Se pensiamo a quali potranno essere le conseguenze dello sviluppo dei trasporti (pur riconoscendo alla mobilità una utilità preziosa: “Andate in tutto il mondo…”) e dell’accelerazione delle comunicazioni sull’umana riproduzione, viene alla mente un popolo ridotto a cyber prodotto in serie che vivrà di realtà virtuale, mentre i vip saranno nelle oasi WWF a godersi il sole. È incredibile come sia facile ingannare le umane aspirazioni (eterne) riducendole a banali soddisfazioni temporanee, inconcludenti ed ultimamente crudelmente violente.

Ciro Pica, Milano Splendido taxi driver, Ciro è anche un tipo arguto e riflessivo. L’utopia consegna gli uomini all’inferno con una promessa di felicità sempre futura. “Se attraverso la tecnologia posso raggiungere un traguardo per la felicità, perché vietare la fecondazione eterologa, o quant’altro, a chi la desidera?”. Rilegga questa frase caro Ciro e traduca: “Se attraverso la tecnologia posso raggiungere un traguardo per la felicità (e dunque se “la mia felicità è avere figli ariani, belli, intelligenti, biondi e azzurri; oppure non averli perché sono rimasta incinta e mi rende infelice il pensiero di una gravidanza non programmata, e poi ho prenotato le vacanze alle Maldive; oppure ho i soldi, mi serve un ragazzino per migliorare la mia immagine, perché ciò mi porterà più lira in cassa e ciò mi farà più felice, datemi un donatore di sperma, pago; oppure, cercasi utero in affitto perché se i soldi non fanno la felicità figuriamoci non averne, dunque pago pur di avere una bambina, possibilmente di colore, per una certa passerella in Tv che mi porta un sacco di pubblicità”…e via cinicamente esemplificando) perché vietare la fecondazione eterologa, o quant’altro, a chi la desidera?”. Già, perché vietarla se nella vita non ci fosse né verità, né mistero? Grazie a Dio però la vita è un Truman Show solo fino a un certo punto di fuga. Dunque occhi aperti. E occhio agli occhi.

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