
L’ATTESA DI UNA FACCIA
C’è una ciotola con del cibo sull’asfalto, sotto il ponte di un viale di periferia. Cibo per un gatto, pensi passando veloce, ma lo sguardo si blocca: quello è un cucchiaio. E quel cucchiaio sull’asfalto bollente, a un passo dalle ruote delle auto parcheggiate, e la scodella di plastica con la pasta scotta dentro, come in un’istantanea ti si piazzano negli occhi e ci si insediano.
Il padrone della ciotola ha il suo giaciglio a pochi metri, sotto a quel ponte. Un mucchio di coperte, panettoni, bottiglie. Estate e inverno, anche con dieci gradi sottozero, lui non si muove. Dimostra sessant’anni – forse ne ha molti di meno. Fuma parecchio, oppure dorme. Al mattino, quando fa freddo, gli passi accanto spiando se la schiena si muove nel regolare movimento del respiro. Muoiono spesso di freddo, i barboni, d’inverno, a Milano. Ma questo è uno di quelli che al ricovero comunale non ci va mai. Si sposta solo quando il Seveso, che scorre sotto la piazza, per il troppo piovere esonda. Lui è il primo che capisce, perché ha la testa proprio sopra un tombino, e dai gorgoglii dell’acqua sa quando il fiume si gonfia. Allora, e solo allora, carica le coperte in spalla e trasloca.
Se provi a parlargli, ti guarda come non capisse. Parla invece da solo, oppure, a volte, con le auto parcheggiate, ma soltanto con alcune. La gente del quartiere gli dimostra un’affezione, gli porta cibo e coperte. Ma lui vive come una monade, senza rapporti con nessuno. Senza tetto, né amici, né soldi, forse di sé gli è rimasto il nome, e la memoria. Già, la memoria. Per quale strada si arriva fin sotto a questo ponte, a mangiare dalla ciotola del cane? Già, l’alcool, ma il bere è conseguenza, qualcosa dev’esserci prima, uno strappo, una lacerazione per cui tutto ciò di cui vivono gli altri non è più tollerabile. Gente che rifiuta perfino un letto in una notte a dieci sottozero. Ha detto a Avvenire il sociologo Claudio Calvaruso: «Il clochard è un assolutista. Si rifiuta di appagare qualsiasi necessità, se non attraverso un tramite affettivo. Solo per la parola di un amico si fiderà ad andare a dormire al caldo in una notte d’inverno: per nulla di meno. Qualcosa affascina in queste persone, come vessillifere di fronte alla comunità di un dolore irriducibile a ogni ragione: l’abbandono dei genitori, o della moglie, per cui non esiste più alcun futuro. Solo la faccia di qualcuno che li vada a cercare personalmente può smuoverli. Sono lì, col loro dolore, che aspettano un uomo». I clochard, dicono le statistiche, sono in aumento, le donne e i giovani soprattutto. Irriducibili in un dolore che non sanno dire. Muti, nell’attesa di una faccia buona.
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