L’audace pretesa. Lui è qui. Ora

Di Marina Corradi
08 Aprile 2004
La supponenza della cultura dominante. E la morte che subito viene. L’inevitabilità di una lotta. E il male forte come l’amore. La Straniera. E la gioia della libertà dal proprio maledetto “sentire”. Una donna, intellettuale e giornalista. E il suo “perché” la Chiesa

Se dovessi dire cosa, a livello viscerale, mi resterà certamente dentro, di questo libro, più di tutto è quel sussulto di Giussani, nell’ascoltare un canto medioevale, l’inno delle scolte di Assisi: «Squilla la tromba che già il giorno finì/ già del coprifuoco la canzone salì./ Su, scolte, alle torri,/ guardie armate, olà!/ attente, in silenzio vigilate! //
O nostri santi che in cielo esultate,/ vergini sante gloriose e beate,/ noi v’invochiam:/ questa città/ col vostro amore salvate./ Contro il nemico che l’anima tiene,/ contro la morte che subita viene,/ in ogni cuor/ sia pace e bene,/ sia tregua a ogni dolor./ Pace!»
Dice di tutto un mondo questo canto, di tutto uno sguardo in cui il MedioEvo era immerso. Pure nel male, nella violenza , Dio “dentro” tutto, dentro i pensieri, dal risveglio al calare della notte. Dio sempre accanto: nella speranza della sopravvivenza, in un’epoca di carestie e pestilenze. Dio, giudice vicino e misericordioso in un mondo in cui la morte «subita viene», Dio, salvezza contro il grande nemico di cui quel mondo ben più che il nostro era consapevole. Quell’inno già nelle sue poche parole racconta perché furono costruite le nostre splendide cattedrali europee, mentre attorno le case avevano ancora i tetti di paglia; e perché perfino le statue inerpicate sulle più inaccessibili guglie erano perfette in ogni particolare, anche se nessun uomo le avrebbe mai viste. Le vedeva Dio, erano per Dio, quel Dio, pure fra mille mali e violenze, così assolutamente certo e presente, così totalmente al centro dell’orizzonte quotidiano.

QUEL DIO CHE E’ STORIA
Siamo agli antipodi di questa coscienza. Mi ricordo un’intervista per Avvenire di qualche anno fa con un intellettuale, una firma di la Repubblica, ora morto, che a una domanda che feci sull’intervento di Dio nella storia rispose netto e tranchant: «Dio, se c’è, non c’entra». Già, come scrive Giussani, se «verità» è solo ciò che è dimostrabile dall’uomo – in senso positivistico, verità misurabile, ripetibile, manipolabile come materia da esperimento – allora la prima cosa da escludere è che Dio possa intervenire nella storia. Il massimo che la cultura dominante può concedere, per chi proprio in questo Dio vuole credere, è l’area della coscienza del singolo, area rigorosamente privata: è, dice Giussani, il «confino di polizia» della religione. La pretesa che ce ne stiamo in chiesa, e zitti.
Contro la supponenza della cultura che ci domina – e nemmeno ci accorgiamo di quanto ci domina capillarmente – la pretesa audace della Chiesa è di essere Cristo vivo, che continua. Noi qui dentro stasera siamo i continuatori di quei pochi che si ritrovarono un giorno, non travolti dalla paura e dal dolore, come sarebbe stato naturale dopo la morte di Cristo sulla croce, ma certi, invece, che Cristo fosse presente, vivo, fra loro.
Per noi, duemila anni sono un’enormità, per noi è difficile tornare a quel momento.
L’altro giorno a Brera mi sono trovata davanti alla “Cena di Emmaus” di Caravaggio. Caravaggio è uno straordinario testimone. Assassino, frequentatore di prostitute, pare anche omosessuale, addirittura infine incarcerato senza una sentenza, semplicemente definito “putridus ac foetidus”: ma per una straordinaria grazia pare che lui, in quei giorni a Gerusalemme, fosse lì, a vedere coi suoi occhi. E dunque alla tavola di Emmaus l’oste furbo guarda di sotto in su Gesù, come dire «sì, ci assomigli, potrebbe darsi, però io non ci casco». E invece improvvisamente i due viandanti che erano con lui lo riconoscono, uno apre le braccia sbalordito – come se la gioia gli spaccasse il cuore. Nella penombra di una trattoria della provincia dell’Impero, tra viandanti stanchi e impolverati. Cristo è altrettanto vivo che allora, a quella tavola, ma non ci è facile saperlo (per quel che mi riguarda, anzi, proprio questa coscienza è la più bestiale fatica).
Il fatto è che proprio per aiutare in questa fatica occorre un luogo fisico che si opponga alla corrente forte, trascinante, del “mondo” – il mondo d’oggi, ma di ogni tempo, sempre tenacemente contrario a “quel” fatto, a quell’uomo.
Occorre un luogo fisico, una compagnia concreta in cui maturare un altro sguardo su di noi e sul nostro destino.

L’IMMAGINE SFIDA
Se la Chiesa è Cristo vivo, il lavoro della Chiesa, mi sembra di capire leggendo, è proprio il mantenimento e il costante far rinascere, ad ogni generazione, attraverso i secoli, lo sguardo sulla vita e sul destino insegnato da Cristo agli apostoli. Una sfida immane, considerando quali rivoluzioni, violenze, ideologie trionfanti hanno attraversato la storia (e però, nessuna di queste rivoluzioni è durata molto più di un secolo. La Chiesa, pure fra crisi ed errori, sempre lì, tenace, da duemila anni).
Ho trovato straordinaria la annotazione di Romano Guardini: «La Chiesa pone sempre di nuovo l’uomo davanti a quel fatto, che lo porta al retto atteggiamento davanti all’Assoluto. Pone l’uomo davanti all’Assoluto. Allora l’uomo diviene cosciente di non essere egli stesso illimitato, ma nasce in lui il desiderio di un’esistenza libera dalle mille dipendenze della vita terrena, giunta alla pienezza interiore. Lo pone davanti all’eterno. E allora diviene consapevole di essere perituro, ma destinato a vita immortale. Lo pone davanti all’infinito, ed egli si fa intimamente consapevole di essere finito in tutto il suo essere, ma che solo l’infinito lo appaga».
La Chiesa è, in altre parole, ciò di cui parla Eliot ne I Cori della Rocca. La Chiesa è: «La Rocca. Colei che veglia. La Straniera. Colei che ha visto cosa è accaduto, colei che vede cosa accadrà. La Testimone. (…) Essa ricorda loro la Vita e la Morte , e tutto ciò che vorrebbero scordare. Ricorda loro il Male e il Peccato, e altri fatti spiacevoli. Essi cercano sempre d’evadere/ dal buio esterno e interiore/ sognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno di essere buono».
Ancora: «E sembra che la Chiesa non sia desiderata nelle campagne, e nemmeno nei sobborghi; in città/ solo per importanti matrimoni».
Non desiderata da «uomini impegnati a ideare il frigorifero perfetto», «a far progetti di felicità e buttar via bottiglie vuote/ passando dalla vacuità di un febbrile entusiasmo/ per la nazione o la razza o ciò che voi chiamate umanità».

LA TESTIMONE, LA ROCCA
Per secoli in Occidente la Chiesa ha combattuto con la spada sguainata. Eresie, eserciti nemici, orde barbariche. E anche quel nemico interiore, di cui il popolo cristiano era ben cosciente. Si sapeva, di avere un avversario. Oggi, l’avversario è pacifico e quasi amabile. Per esempio, uno dei riferimenti culturali dominanti sta, scrive Giussani, nella parola “riuscita”. Nell’essere vincenti (Eliot: «Vi dico: non pensate al raccolto, ma solo alla semina giusta»). Sembra un niente, ma è la “riuscita”, è un niente che può disfare. Disfa, intanto, quelli che “non” riescono. E anche quelli che “riescono”, appena finita l’età produttiva, se cominciano a porsi qualche domanda, rischiano amari bilanci. Leggo da Giussani: «La valorizzazione della persona che la tradizione della Chiesa propone è nell’idea per cui basta un briciolo di tempo vissuto con intensità nei rapporti ultimi che lo determinano – coscienza del destino e affezione al mondo nelle circostanze in cui Dio chiama – e in proporzione a ciò un uomo vale». Ancora: «è davvero impressionante riflettere bene a questa esaltazione che è tutta cristiana dell’istante puro, libero dai condizionamenti o dalla fortuna o dalla sfortuna delle circostanze… Non c’è nulla che salvi la libertà e l’impronta divina dell’io, come questa possibilità celata in ogni momento anche apparentemente furtivo e casuale».
è una grande vittoria quella che viene promessa: «La tradizione cristiana spazza via l’idea di uomo inutile, di tempo senza senso, di azione puramente banale». Ecco, queste forse per voi sono parole ovvie, per me sono eccezionali. Io, benché battezzata e cresimata, non sono diventata adulta in una cultura cristiana – tra i quindici anni e i trenta vivevo anzi dalla parte opposta, e non senza rancore per i catechismi e gli oratori subìti da bambina.

LA MORTE RENDE COSE
Questa mattina guardavo sulla Cnn le prime immagini della strage di Madrid. Un improvviso salto indietro della memoria. 23 dicembre 1984, il rapido 904 esplode in una galleria dell’Appennino fra Firenze e Bologna. Io ero una giovane cronista molto ansiosa di fare e capire. «Posso andare?», ho chiesto. I miei colleghi più vecchi non avevano nessuna voglia di passare il Natale tra i morti. Così mi sono ritrovata sola, nel cuore della notte, all’obitorio di Bologna. Una dozzina di corpi erano già arrivati, allineati sulle barelle, pietosamente coperti da lenzuoli. Come a Madrid, fra i binari. Molti anni dopo avrei letto Edith Stein: «La morte, che rende gli uomini cose». Non fu il sangue a impressionarmi, né il silenzio. Ma le braccia, le mani inanimate e pendenti dai lettini, come di marionette a cui si fossero rotti i fili, come di bambole in pezzi, come di automi, cose, soltanto cose in frantumi. Carne, solo carne, nient’altro. Sono uscita da quella notte annientata e rabbiosa: quante bugie mi avevano raccontato, tutti.
Tuttavia, benchè non credente, mi capitava di rendermi conto come nessuno dei cosiddetti “valori laici” – che mi son sembrati sempre fatti d’aria – fosse in grado di dare senso alla vita di un uomo, quando quest’uomo non raggiungesse un minimo di riuscita sociale, o peggio fosse malato, o matto, o handicappato. A parole, tutti a negare questo non valore dei non- riusciti. Ma, di fatto, più che fargli l’elemosina o dargli un dignitoso aiuto, cosa restava? E se quello, magari sul punto di gettarsi da un balcone, come mi è capitato di vedere quando facevo la cronista, chiedeva di più, chiedeva un senso, al massimo uno smarrito poliziotto gli poteva offrire un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio, in ospedale psichiatrico). Invece: «Non esiste l’uomo inutile, l’azione banale, il tempo senza senso»: è una parola rivoluzionaria, e ancora di più oggi, in cui ci viene come subliminalmente suggerito che tutto è invece inutile, banale e senza scopo.

PERCHE’ LA CHIESA
Perché la Chiesa, si chiama questo libro. Per essere pellegrino, “homo viator”; dentro, ancora, l’orizzonte totalizzante dell’uomo medioevale – un orizzonte da uomini – di cui io avverto una profonda nostalgia. Per poter dire veramente «tutto in Lui consiste», parola che avvince, ma che io non riesco a penetrare.
Uno pensa, poi, di dover fare fatica, di dover sforzarsi, per capire, per conquistare dei pezzetti di verità. In questo senso ci sono in Giussani pagine illuminanti, le pagine da 257 in avanti. Il sacramento è la forma più semplice di preghiera, dice: «Non c’è alcun bisogno di saper riflettere, di trovare espressioni adeguate, di provare emozioni consone all’avvenimento». Basta «sapere e pensare chi si va a ricevere», diceva il vecchio catechismo. «Perciò uno può compiere quel gesto partendo da un animo carico di risentimento, esasperato, con il cuore freddo e la mente bloccata: ciò che conta è il libero andare a».
Che gioia questo essere liberati dal proprio maledetto “sentire”, così instabile, così fluttuante. Un oggettivo “andare a”, e basta. Non fare niente altro che andare. In fondo, molto più un essere presi che un prendere.
Aggiunge Giussani: fra tutti i gesti, «il Sacramento è il più gratuito, perché l’unica sua ragione è l’affermazione della morte e resurrezione di Cristo come senso dell’esistenza e della storia». Già, non ci avevo mai pensato: nessun altro senso ha, quel gesto, se non questa affermazione. In una giornata, magari, l’unica assoluta gratuità. Però con quel gesto la giornata è già colma, anche quando poi non si facesse più niente di buono.
Giussani scrive che la Chiesa scommette sull’uomo, ipotizzando che il suo messaggio, vagliato dall’esperienza elementare, rivelerà la presenza prodigiosa. Aggiunge che scommette con colui che si è allenato a confrontare tutto con quel fascio di esigenze profonde che costituiscono il nucleo, non censurato da interventi esterni, del suo vero “io”. Si confronta dunque con l’uomo alla ricerca del «fascino più grande», come diceva Agostino, della pienezza assoluta di vita. A quest’uomo la Chiesa promette nientemeno che il centuplo quaggiù.
è una sfida audace, dice Giussani. Talmente audace, che per molti anni nel recente passato un certo moralismo nell’insegnamento della religione cattolica – parlo almeno della mia generazione – questa sfida non l’ha colta affatto. Il catechismo, per molti miei coetanei, era una faccenda mesta, in cui ci si diceva che dovevamo essere buoni, qualcosa tra il galateo e la vaga intimidazione, perlomeno quando si sfiorava un certo “non fornicare” che pareva una porta aperta sull’inferno. Insomma, bisognava essere miti, modesti, ubbidienti, generosi, ma non si capiva perché. E del centuplo, della gioia quaggiù, mai sentito parlare. Tutto un affannarsi, invece, a strappar via certi pensieri, che a nove anni ancora non si presentavano, ma qualora si fossero presentati, già eravamo avvertiti, e pronti con la falce.
Cristo ridotto a un triste elenco moralista: io comprendo, guardandomi indietro, la mia rabbia di sedicenne che se ne è andata sbattendo la porta. Scrive Giussani: «Annunciare Cristo significa testimoniare che l’uomo è posto in una compagnia tale che non c’è da dimenticare il male o la contraddizione. Egli trasforma, redime, con il libero assenso dell’uomo, ogni cosa. Tale trasformazione è un’esperienza che già nel presente inizia».

UN MOMENTO NEL TEMPO
Questo è un altro respiro, è un’altra promessa, una promessa di gioia. Qui si capisce perché uno dovrebbe essere cristiano: per un fascino più grande, come scrive Agostino. Perché uno dovrebbe stare dentro la Chiesa, Cristo vivo – anche se io non riesco bene ad afferrare che è vivo. Perché, e anche questo è un brano di Eliot: «Quindi giunsero, in un momento predeterminato, un momento nel tempo e del tempo, un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamo storia:/ (…) Un momento nel tempo, ma il tempo fu creato attraverso quel momento: poiché senza significato non c’è tempo, e quel momento di tempo diede il significato. Quin-di sembrò come se gli uomini dovessero procedere/ Dalla luce alla luce, nella luce del Verbo, attraverso la Passione e il sacrificio salvati a dispetto del loro essere negativo;/ Bestiali come sempre, carnali, egoisti come sempre, interessati e ottusi come sempre lo furono prima, eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loro marcia sulla via illuminata dalla luce; spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppure mai seguendo un’altra via».
Questo, per me, è stare nella Chiesa. Mi dispiace solo che, a sedici anni, non me lo abbia detto nessuno.

*Trascrizione dell’intervento svolto alla presentazione del libro di Luigi Giussani Perché la Chiesa, edizione Rizzoli, presso il teatro San Rocco, Seregno, 11 marzo 2004

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