
Lavoro, una questione umana
Soprattutto in quest’ultimo periodo, il tema del lavoro ha riacquistato la sua dimensione centrale sia all’interno del mondo politico che nella società civile. Articolo 18, flessibilità, mercati in espansione, rilancio dell’economia, sono i temi fondamentali. In tutto questo disquisire manca però quella che si potrebbe definire la “questione umana”: l’alienazione. L’idea che la tecnologia e il progresso abbiano sanato l’irrisolta diaspora tra capitale e lavoro è una banale mistificazione. La maggioranza dei lavoratori ancora oggi “subisce” il lavoro, ancora oggi intende e riduce il lavoro a puro mezzo utilitaristico. Se nelle attività manuali e a bassa specializzazione il lavoro resta esterno all’operaio e non viene concepito come appartenente al proprio essere, oramai sempre più spesso anche il cosiddetto lavoro intellettuale subisce la stessa sorte. L’asservimento della macchina passa oggi, non solo tramite le braccia ma anche tramite il cervello. Assistiamo sempre più ad un sostanziale svuotamento dell’attività intellettuale a favore di una sua meccanizzazione che ne svuota il contenuto, svilendone non solo il risultato ma anche la ragion d’essere. Senza voler banalizzare o svilire le sostanziali differenze materiali, potremmo dire che oggi l’essenziale differenza tra operai e impiegati risiede principalmente nello strumento di lavoro. Anche per il lavoro intellettuale, quindi, la “cultura” conta sempre meno a vantaggio della necessità di una formazione standardizzata e subordinata ai meccanismi di produzione. In poche parole anche “il cervello” viene messo al “lavoro”, e ad esso vengono richieste competenze specifiche ma non doti di autoconsapevolezza e autonomia culturale. Il lavoro dovrebbe essere invece, libera manifestazione delle forze essenziali dell’uomo, vita esso stesso, il luogo primario della realizzazione del proprio essere sociale. Un’utopia irrealizzabile?
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