Le aziende e la maternità: un’alleanza per lo sviluppo

Occorre un’alleanza tra Stato, aziende e famiglie per provare a combattere il grande gelo demografico. Cosa dicono studi e indagini

La discussione pubblica sul tema dell’inverno demografico sembra avere finalmente messo da parte le timidezze del passato. Per molto anni gli appelli di studiosi e realtà associative sono restati sostanzialmente inascoltati. Nel frattempo, il problema della difficoltà delle neo-madri rispetto al lavoro non ha smesso di apparire drammatico. L’Ispettorato Nazionale del Lavoro segnalava nel 2022 come su 42.000 dimissioni consensuali di genitori con figli da 0 a 3 anni, il 77% del totale fosse riferito alle donne. Per 3 di loro su 4, la causa sarebbe addebitabile all’impossibilità nel conciliare il lavoro con la cura della prole. Una vera emergenza nazionale.

Come intervenire? Le politiche pubbliche da sole non possono bastare. Non a caso una parte della letteratura internazionale indica come indispensabile la co-presenza di politiche pubbliche, policies aziendali e adeguato supporto famigliare per rendere più efficace l’equilibrio vita-lavoro per genitori di figli tra 0 e 6 anni. Le analisi comparative ci dicono in particolare che le aziende adottano policies di work-life balance (comprese le politiche in supporto di maternità e paternità) soprattutto là dove il Governo si impegna nella stessa direzione. Occorre insomma un’alleanza tra Stato, aziende e famiglie per provare a combattere il grande gelo demografico. E proprio in questa direzione sembra andare il nuovo “Codice di autodisciplina” promosso dalla Ministra Eugenia Roccella e sottoscritto il 7 novembre da un primo e assai rilevante drappello di aziende “avanguardiste”.

Cosa ci dicono le lavoratrici

Che cosa possono fare allora le aziende per essere protagoniste di uno sforzo collettivo di sostegno della maternità? Innanzitutto, partire dall’ascolto dei bisogni reali delle lavoratrici.

Un’indagine che abbiamo svolto insieme a colleghi dell’Università Cattolica su un campione rappresentativo di 18.000 dipendenti in 8 imprese di varie dimensioni segnala come l’offerta di welfare sia percepita come parzialmente adeguata alle esigenze, soprattutto per lavoratori e lavoratrici in età fertile e già con figli e/o genitori non autosufficienti. C’è molto spazio, insomma, per qualificare le politiche aziendali in senso sociale e in particolare per orientarle alle esigenze specifiche della maternità e della genitorialità.

La ricerca segnala come la soddisfazione rispetto alla propria organizzazione non dipenda dalla ricchezza del welfare né dalla quantità di scelte disponibili nel Piano di welfare, bensì dalla loro qualità e adeguatezza rispetto alle esigenze effettive. Ciò significa non limitare le politiche per il benessere organizzativo a un mero adempimento, bensì costruire un’offerta ricca e variegata di people care contrapposta alla tentazione di convogliare il massimo delle risorse in buoni spesa. Scelta, quest’ultima, ovviamente lecita, ma che punta a ottenere aumenti salariali de facto, defiscalizzati, più che a definire un impegno finalizzato a dare valore proprio al “fare figli” come oggetto esplicito della politica aziendale.

Non a caso al primo posto mettono la richiesta di servizi che aiutino nella conciliazione vita-lavoro, indirizzati ad ampliare i congedi di maternità e paternità anche oltre i limiti previsti dalla legge, a predisporre percorsi protetti per il reingresso al lavoro della donna dopo la maternità, a permettere maggiore flessibilità dei tempi la flessibilità dei tempi ma a condizione che madri (e padri) possano interpretare il loro ruolo nell’organizzazione con maggiori spazi di autonomia (ad esempio nel quadro di un’applicazione autentica del cosiddetto lavoro agile, passando dunque dal controllo alla fiducia/responsabilizzazione, dalla centralità dell’execution alla delega operativa nella direzione di un lavoro per fasi/cicli/obiettivi).

Non un vincolo ma una risorsa

Se si assume questa prospettiva, la maternità non è più percepita come “vincolo”, ma come risorsa che fa crescere la persona in termini di responsabilità e focalizzazione sugli obiettivi, potenziandone anche le skills non cognitive, sempre più rilevanti nell’epoca della nuova trasformazione del lavoro.

In ogni caso le motivazioni alla procreazione non sono spiegabili esclusivamente attraverso la maggiore o minore disponibilità di capitale economico, di benefit o di servizi, sia esso di fonte pubblica o aziendale. Lo evidenzia in fondo anche l’andamento dei tassi di fertilità in Europa, dove la media UE 27 è pari a 1,58 figli per donna e dove ormai nessuno Stato presenta un tasso di fertilità pari o superiore al tasso naturale di sostituzione (2,1 nascite per donna), livello superato dai primi anni Novanta a oggi soltanto da Irlanda e Francia. Occorre insomma cogliere compiutamente l’esistenza di modelli culturali che resistono, almeno in parte, anche nel contesto di politiche pubbliche molto sviluppate (come è ad esempio il caso della Francia) e che si diffondono passando anche (e forse soprattutto) attraverso le relazioni significative vissute dalla persona. Alcuni studi segnalano in particolare un effetto più forte tra fratelli e tra amici, ma anche il passaggio alla genitorialità di un collega può influenzare la decisione di un altro collega che a sua volta può influenzare il fratello o l’amico.

Madri “per contagio”

Un recente studio ha confermato effetti positivi significativi tra colleghi sulle transizioni di una donna alla genitorialità, con un picco di influenza entro il II anno dalla genitorialità del collega, e il 40% degli effetti osservati è co-determinato da fattori contestuali aziendali. Diventare madri, dunque, “per contagio” positivo o per “sana invidia”: lo dice l’esperienza e lo conferma la ricerca. Con un’aggiunta importante: le opportunità di ricevere sostegno finanziario, strumentale ed emotivo dentro l’azienda riducono i costi previsti di una gravidanza e dunque aumentano la propensione generativa.

Per tutti questi motivi, una campagna per favorire la maternità in azienda rappresenta un tassello fondamentale per invertire la rotta a livello culturale. L’azienda è certamente uno degli ambiti principali in cui questa inculturazione avviene ed è dunque anche, e forse innanzitutto dalle aziende che deve partire un cambio di paradigma per la tutela della maternità. Riconosciuta finalmente non più come un problema privato, ma sempre più come una questione da tutelare come bene comune.

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