Le periferie del mondo negli occhi e nei sorrisi dei ragazzini salvati da Avsi

Di Elisabetta Longo
09 Agosto 2014
La mostra installata al Meeting di Rimini (24/30 agosto) racconta tre progetti di Avsi. Con l'aiuto di John Waters capirete come si genera bellezza in Kenya, Ecuador e Brasile

«Preferisco una Chiesa “incidentata” che una Chiesa al sicuro e arroccata in se stessa», ha detto papa Francesco durante la Giornata dei Movimenti dello scorso anno. «Andate nelle periferie del mondo», ha continuato il Pontefice. A questo appello ha già aderito da tempo la Fondazione Avsi, che porta avanti dal 1972 più di un centinaio di progetti in tutto il mondo. Di questi, tre tra i più belli sono illustrati nella mostra “Generare bellezza. Nuovi inizi alle periferie del mondo”, che verrà allestita al prossimo Meeting di Rimini, dal 24 al 30 agosto. A spiegare com’è nata l’idea e quali storie sono state scelte, c’è Maria Teresa Gatti, curatrice insieme al grande opinionista irlandese, John Waters.

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Qual è il filo conduttore della mostra?
Abbiamo cercato di illustrare le periferie del mondo nelle quali Avsi è presente. Il nostro lavoro passa proprio attraverso le periferie, anche quelle più estreme. Quelle che sembrano essere state dimenticate da Dio. E invece noi vogliamo dimostrare che Dio non lascia soli gli uomini nemmeno in questi luoghi, mandando loro altri uomini, per manifestare la sua presenza.

Quali sono i temi sviluppati tra le foto e le parole che segnano il percorso del visitatore?
I tre temi che portiamo avanti sono l’educazione, l’importanza della nutrizione e il cambiamento in una nuova accezione di sé. Sono importanti allo stesso modo e accomunati dall’importanza dello sviluppo. Senza sviluppo non c’è cambiamento, ed è quello che viene dimostrato dalle storie che abbiamo raccontato. Abbiamo intervistato e raccolto le storie di 68 persone. All’interno degli spazi espositivi abbiamo voluto ricreare la scuola del Kenya, che sta sotto un albero, per dimostrare che per lo sviluppo contano anche gli ambienti in cui si porta avanti il progetto.

In quali periferie del mondo avete sviluppato il racconto di questi tre temi?
Per raccontare l’importanza della nutrizione e il problema della fame, siamo andati a San Paolo, in Brasile. Per raccontare l’idea dell’educazione abbiamo raccontato la storia di Angelina, in Kenya, che viveva con tutti i suoi figli in una capanna composta da una sola stanza, ma è riuscita a mandarli tutti all’università. O quella di Ignazius, studente di Nairobi, che aveva cominciato ad andare a scuola solo perché lì avrebbe avuto garantito un pasto ogni giorno. Non era per sé ma per i suoi fratelli. Oggi studia relazioni internazionali, perché da piccolo sognava di diventare il presidente del Kenya. Oppure ancora la storia delle mamme dell’Ecuador, con figli sbandati. Per aiutarli a rifarsi una vita hanno iniziato a partecipare personalmente alle lezione scolastiche.

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Come mai avete chiamato John Waters per aiutarvi a raccontare queste storie?
Ci serviva qualcuno di non troppo didascalico, che avesse una visione d’insieme più ampia. Che vedesse al di là della periferia dalla quale la storia veniva presa.

In gran parte delle foto esposte, quello che risalta subito agli occhi del visitatore è il sorriso delle persone.
Perché nelle periferie non c’è solo dolore, anzi, c’è sempre il bisogno e la voglia di trovare uno spunto per sorridere. Noi abbiamo voluto mostrare questo bisogno.

Che percorso fa il visitatore?
Il nostro scopo è quello di sollecitarlo, di farlo arrivare all’ultimo pannello diverso da come è entrato. Speriamo che ascoltando e vedendo queste storie possa cambiare il preconcetto di periferia che ognuno di noi ha. Le periferie possono diventare il centro, se lo vogliamo tutti.

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