
Le pietraie di Caino
Adikwala – gli avvoltoi volano alti. Le due orbite bianche, sbarrate al cielo, non li vedono più. La carne si macera sull’altipiano polveroso. Carne e divise tenute insieme da grumi di sangue, budella e cervello. Erano in trenta, erano giovani e non erano sicuramente forti. Erano ragazzini e nulla più. Ragazzini imberbi mandati a inerpicarsi su queste sassaie aspre, ad inghiottire piombo e morte. I loro kalashnikov li hanno abbandonati sulla strada della fuga. Un sentiero di pietre aguzze, lastricate di sangue, povere bisacce, barelle ribaltate, tende, boracce abbandonate. Una scia di morte lunga due chilometri, avvitata sulla cresta di questo altipiano che precipita a strapiombo nella vallata. Una mattanza. I loro nemici ci girano attorno. Te li indicano con la canna del fucile. Carne marcia da mostrare alla stampa. Carne marcia per segnare una vittoria sulla tabellina dei punteggi. Qui ad Adikwala, 160 chilometri a sud di Asmara, i morti oggi sono etiopi. Ieri e forse anche ora a Senafè, 100 chilometri in linea d’aria più a est, i cadaveri erano eritrei. Cambia poco. Soltanto il colore della divisa. Per il resto tutto uguale. Una guerra di disperati. Una guerra di soldatini dimenticati, abbarbicati a scoscese, brulle vette di pietra. Capretti in divisa da mandare alla mattanza. Si combatte da due anni. Le conquiste potrebbero misurarle in manciate di sassi. Si procede ad ondate come nella Prima guerra mondiale. Lì si scontravano imperi. Qui due nazioni morte di fame. Lì c’erano in gioco gli interessi del mondo. Qui? Il colonnello vincitore ti elenca le fasi della sua vittoria. Due reggimenti di etiopi a tenere quest’unghia di roccia sprofondata due chilometri all’interno del territorio eritreo. Poi, una settimana fa, la grande avanzata. Due chilometri di terra strappata e gli etiopi di nuovo, finalmente, al limitare del loro confine. Una partita senza fine e senza senso che dura dal maggio del 1998. Incominciarono, a onor del vero, gli eritrei. Occuparono il triangolo di Badme, una pietraia sassosa come questa, al confine sud occidentale. Dissero ovviamente che era tutta colpa dell’Etiopia. Quel confine era stato disegnato nel 1993. In quell’anno la guerriglia etiope aveva messo in fuga il negus rosso Menghistu. I combattenti indipendentisti eritrei poco prima avevano liberato Asmara. I due leader vincitori, il presidente eritreo Isaias Afwerki e il nuovo primo ministro etiope Meles Zenawi si strinsero la mano da buoni amici e segnarono il nuovo confine. Nasceva dopo decenni di guerra lo stato di Eritrea. A quel tempo non c’erano problemi. Il presidente Isaias e il primo ministro Meles erano veramente amici. La vittoria di Meles era in gran parte il frutto degli aiuti ricevuti dagli eritrei. I guerriglieri degli altopiani per dieci anni avevano passato armi e addestramento ai loro alleati nel Tigrai. La lotta era comune. Il grande nemico si chiamava Menghistu. In quei giorni vittoriosi i due si abbracciarono e sognarono un futuro comune. L’Etiopia sarebbe stata la grande, immensa serra agricola capace di sfamare due popoli. L’Eritrea sarebbe stata lo sbocco al mare e il centro commerciale grazie al porto di Assab e alle sue vecchie industrie. Nonostante la guerra la piccola neonata repubblica era ancora una delle zone più industrializzate d’Africa. Una piccola potenza economica dalle smisurate ambizioni. Tutto andò bene fino al 1997. Fino a quando l’orgoglio di Isaias non trasformò i vecchi sogni comuni in individuale smania di grandezza. Il birr, la valuta comune coniata ad Addis Abeba, non andava più a genio agli eritrei. Asmara voleva banconote tutte sue. Nacque il nakfa. Con quello gli eritrei pretendevano di continuare ad acquistare le merci agricole etiopi. Merci da rivendere poi in dollari nello Yemen e negli altri stati arabi. Meles cominciò a diventare meno amico. Pretese che gli eritrei pagassero anche loro in valuta pregiata. Asmara allora alzò le tariffe di transito per le merci dirette ad Addis Abeba sbarcate sulle banchine di Assab. Intanto nel Tigrai le aziende etiopi cominciarono a far concorrenza a quelle di Asmara. Si cominciò a parlare di confini. Ad Asmara qualcuno tirò fuori le vecchie carte. In tutta l’Africa i confini delle nazioni corrispondono a quelli segnati dalle antiche potenze coloniali. L’accordo di pace del 1900 firmato da Italia ed Etiopia ritornò di grande attualità. I 200 chilometri di sassi di Badme, a sud ovest, un grande motivo di orgoglio nazionale da riscattare col sangue. L’Etiopia reclamò allora il villaggio di Zalambessa, quattro case sul cucuzzolo di una montagna di pietra e polvere. L’Eritrea smaniava per un quadratino di deserto sperduto nelle sabbie a 60 chilometri dal porto di Assab. E fu la guerra. Gli aerei di Asmara bombardarono le neonate industrie del Tigrai, i vecchi combattenti ripresero le armi e marciarono sulle pietraie per strapparle all’Etiopia. Due eserciti di guerriglieri dimenticate le passate esperienze incominciarono a scavar trincee e a combattere un’innaturale guerra di posizione. Una guerra da vere nazioni. Una guerra giocata a ondate umane. Non per ondate di guerriglieri esperti, ma di imberbi ragazzini. Ventimila diciottenni o poco più chiamati a pagare col sangue il loro tributo all’unità nazionale. Ventimila nuovi morti. Ma iniziarono anche i grandi affari. I commercianti d’armi del vecchio Est europeo, i colonnelli degli scalcinati eserciti dell’Unione Sovietica si misero in marcia. Nel Corno d’Africa era spuntato un nuovo eldorado. I preziosi raccolti di caffè con i quali l’etiopia potrebbe lenire le sofferenze di una popolazione colpita dalla siccità volarono verso la Cina. In cambio Pechino mandò navi piene di missili e munizioni. Duecentocinquanta milioni di dollari transitarono dai conti esteri di Addis Abeba e volarono su quelli di Mosca, Kiev e Sofia. In cambio arrivarono caccia-bombardieri, piloti pronti a giocarsi la vita per 1000 dollari al mese, ed elicotteri. Gli eritrei non spesero meno. Comprarono anche loro Mig-29, eliccoteri e carrarmati. Investirono anche loro un milione di dollari al giorno per tenere aperte quelle trincee piene di carne da macello. Ma il piombo e le canne di fucile non erano l’unica merce di scambio. La Francia aveva lì, a due passi, il suo vecchio protettorato del Gibuti. La guerra si trasformò in un grande affare commerciale. Lo sbocco al mare di Assab per l’Etiopia poteva ora diventare inutile. Bastava che le tasse di transito convergessero su quel porto caro a Parigi. Così caro che qualche settimana fa la Francia, in sede di consiglio di sicurezza dell’Onu, ha minacciato, assieme alla Russia, di porre un veto alla risoluzione che prevede un embargo totale sulle vendite di armi nei due paesi. Alla fine è passato un embargo più blando. Un piccolo cerotto da appiccicare sopra la cattiva coscienza. Un altro cerotto è stato disteso ad Algeri dove lunedì è iniziata una dubbia trattativa di pace. Lo stesso giorno gli etiopi hanno sganciato bombe sull’aeroporto di Asmara. Per molti giorni e mesi ancora gli avvoltoi del Corno d’Africa potranno continuare a volare tranquilli. La carne fresca non mancherà.
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