
Le radici del popolo albanese
Pubblichiamo l’articolo uscito sul numero 32-33/2012 di Tempi.
Quarantacinque anni di comunismo, quindici di ateismo di stato assunto a principio costituzionale e imposto con la forza possono cancellare totalmente le tracce del cristianesimo dalla tradizione e dalla coscienza del popolo albanese? No, sembra essere la risposta. Lo dicono convinti Bardha Karra, Zhirajr Mokini Poturljan e Denis Spahaj, trentenni albanesi che Tempi ha incontrato a fine luglio, in un bar di Milano. Ciò che unisce questi ragazzi è un incontro: «Per storie e circostanze diverse, chi in Italia e chi in Albania, tutti noi abbiamo conosciuto il cristianesimo», spiega Zhirajr. «Da quel momento è nata in ognuno una domanda forte e pressante su chi siamo, sulla nostra identità personale e di popolo, sul senso di tutto quello che noi e le nostre famiglie abbiamo vissuto. L’incontro con il cristianesimo ha cambiato tutta la nostra esistenza. Pur non conoscendoci, il desiderio che avevamo era comune: andare a ritrovare nella nostra storia e in quella del nostro paese le tracce di ciò che ci aveva cambiato». La loro amicizia, il loro incontro, è dunque il frutto di qualcosa che viene molto prima e la mostra che è nata ne è una semplice conseguenza. Una mostra che sarà presente al Meeting di Rimini (che si terrà dal 19 al 25 agosto), realizzata insieme ad altri tre albanesi, Florenc Kola, Miranda Mulgeci Kola e Teodor Nasi e con il contributo di Eugenio Crema Felice e Giorgio Paolucci. “Albania, Athleta Christi. Alle radici della libertà di un popolo” è il titolo dell’esposizione che intende documentare come la religiosità possa diventare l’unico limite alla dittatura dell’uomo sull’uomo, l’unica obiezione alla schiavitù del potere. Esattamente quello che ha vissuto uno dei più antichi popoli d’Europa, quello albanese, che quest’anno festeggia anche il centenario della sua indipendenza (1912-2012).
Bardha, 29 anni, ha conosciuto il movimento di Comunione e Liberazione grazie ai volontari di Avsi, arrivati in Albania durante la guerra del Kosovo. Dopo le scuole superiori e una laurea triennale a Tirana, ha completato il suo percorso di studi all’Università Cattolica di Milano, alla facoltà di scienze politiche, indirizzo Amministrazione pubblica. «Sono nata in un paese dove il tasso di delinquenza è altissimo e la è mentalità chiusa. È difficile che una persona si possa salvare in un contesto del genere. Crescevo e vedevo cose bruttissime. Non sapevo cosa volevo, ma sicuramente non desideravo quello che avevo davanti agli occhi. Ho avuto la fortuna di incontrare una suora che ha cambiato la mia vita. Organizzava momenti per intrattenere noi bambini, giocavamo e studiavamo insieme. Niente di particolare, ma ero felice. Poi a 16 anni ho incontrato il movimento e ho capito che Cristo non era un’ideologia come ci insegnavano a scuola, ma qualcosa che potevo toccare. Ho capito che Cristo c’entrava con la mia vita, con la storia del mio paese. Da quel momento ho iniziato a cercare le radici di ciò che avevo incontrato prima nella mia vita, poi in quella del mio popolo. Da bambina ricordo che sentivo i miei nonni recitare il Padre Nostro in latino. Il seme gettato da Cristo c’è sempre stato, nonostante la dittatura avesse bandito tutte le religioni. Abbiamo fatto fatica, certo. Abbiamo sofferto tantissimo. Ma non siamo mai stati abbandonati».
La vita dei padri armeni
Denis si è laureato in Economia a Pavia. Ha incontrato il movimento in università. «È stato semplice: quando andavo a giocare a calcetto con gli amici albanesi finiva sempre in rissa. Poi dei ragazzi di Cl conosciuti a lezione mi hanno invitato a giocare con loro. Le partite le finivamo e poi andavamo a bere una birra insieme. Li ho conosciuti così e non li ho più lasciati. Non ho mai avuto un grande interesse per la mia nazione. Ciò che dice il poeta Ismail Kadare è drammaticamente vero: “Si può dire che mai la dose di sporcizia morale in Albania è stata alta come è oggi. Essa rischia di sostituire il male che le hanno inflitto l’oppressione ottomana, il fallimento comunista e l’usurpazione serba”. Eppure, se sono albanese è perché lo ha voluto Dio, e sicuramente è per il mio bene. Quando sono diventato cosciente di questo, ho iniziato a cercare nella storia dell’Albania le tracce di quello che avevo incontrato in Italia. Ho letto la vita dei martiri, dei francescani, di tutti gli ordini religiosi che nel mio paese si sono rimboccati le maniche per aiutare la popolazione. Abbiamo una storia gloriosa, tragica, ma suggestiva. Gli albanesi sono amanti della libertà. E hanno mantenuto questa identità nei secoli. Ma cosa vuol dire essere liberi? Rispondere a questa domanda mi ha aiutato a riscoprire la mia storia».
Zhirajr è di origini armene. La sua famiglia è fuggita da Istanbul durante il genocidio e si è rifugiata in Albania. «Non ho avuto un’educazione religiosa, all’epoca era vietato parlare di Dio. Però ricordo che mio nonno, prima di addormentarsi, pregava, raccomandava tutti noi a qualcuno. Non sapevo a chi, l’ho scoperto solo più avanti». Zhirajr è arrivato in Italia prima di iniziare l’università. È sbarcato a Venezia per terminare gli studi delle scuole superiori presso i padri armeni dell’isola di San Lazzaro. «Lì ho conosciuto il cristianesimo. Non tanto come religione, ma come qualcosa di bellissimo. Mi colpivano la vita monastica, i canti della Messa, l’ordine. Tutto era finalizzato a uno scopo. Poi mi sono iscritto alla facoltà di Medicina a Chieti e lì ho incontrato Cl. Alcuni ragazzi mi avevano invitato agli esercizi spirituali e ricordo che ero rimasto colpito dalla musica classica che ci facevano ascoltare durante l’ingresso nei saloni. Rivedevo la stessa bellezza che avevo incontrato dai padri armeni e ho capito che il movimento era la stessa cosa che avevo incontrato a Venezia. Prima di morire mio nonno mi ha detto che Dio aveva aiutato la nostra famiglia e che mai e poi mai avrei dovuto allontanarmi dalla fede che avevo incontrato. Mi sono interessato delle mie radici grazie a lui. La storia di preti e martiri era stata occultata dal regime, ma non è mai scomparsa. Però, ancora oggi – che il cristianesimo non è più bandito – è come se fosse qualcosa di astratto. Tutti conoscono madre Teresa, ma per gli albanesi è più un vanto, qualcosa di cui andare fieri. Quando andavo a Tirana mi ricordo che facevo visita a una delle prime chiese cristiane della città e lì incontravo sempre preti italiani. Poi un giorno sono entrato e mi è venuto incontro un padre di origine albanese. Mi si è riempito il cuore, era il segno che Gesù non aveva smesso di operare».
La conquista della democrazia
Nel 1991, caduto il comunismo, l’Albania ha creduto di avere trovato la sua libertà nella Repubblica. Ma la democrazia non può garantire una vera libertà, la può favorire, certo, ma non può essere la risposta alle domande di questo popolo. Il cuore dell’uomo attende qualcosa di grande; puoi impegnarti a fare qualsiasi cosa, ma non basta, può essere utile, ma alla lunga inadeguato. Anche arrivare in Italia non basta, non è quello che cambia la vita di questo popolo. «Ciò che ha cambiato la mia vita è l’incontro con qualcuno di presente», dice Zhirajr. «È capire che Dio è dappertutto, anche in un filo d’erba. Ecco perché mio nonno pregava, era cosciente di questo. E adesso l’ho capito».
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