
Gaza, Libano, Cisgiordania e oltre. Ora Israele si è tolto i guantoni

«Ora si combatte gloves off, senza guantoni», dice Yaron Buskila, un comandante israeliano che fa parte del coordinamento per la difesa e la sicurezza (in sostanza, l’intelligence) usando non a caso una espressione pugilistica americana: «Senza guantoni, senza regole, senza scrupoli». L’ex comandante delle forze israeliane nel Nord, il generale Gershon Hacohen dice esplicitamente: «È possibile che l’Idf debba entrare in Libano boots on the ground», via terra, “con gli scarponi sul terreno”. «Non ci sono alternative, noi dobbiamo in ogni modo far rientrare le persone evacuate dal Nord nelle loro case». Lo dice mentre continuano a suonare gli allarmi in una zona ancor più vasta di quella da cui sono fuggiti oltre settantamila israeliani e la popolazione rimasta viene invitata a non allontanarsi dai rifugi.
In Libano «nessuno si sente al sicuro»
Hezbollah lancia razzi sulla Galilea ma il Libano è in fiamme. L’aviazione israeliana colpisce dal confine fino a Beirut. Prima di ogni attacco fa piovere su Tiro e Sidone, sui quartieri intorno ad Haret Hreik, la roccaforte di Hezbollah nella periferia sud della capitale libanese, nella valle della Bekaa dove ci sono le basi delle milizie sciite, volantini scritti in arabo che avvisano la popolazione: «Stiamo per arrivare, state lontani degli arsenali, li colpiremo tutti». Gli stessi messaggi compaiono sui telefoni dei libanesi.
«Ormai nessuno si sente al sicuro», ci dice Anja, studentessa alla università americana, «dopo l’esplosione dei beeper, i cercapersona, sappiamo che Israele ha posizionato i suoi ordigni in ogni apparecchio elettronico e può farli esplodere in qualsiasi momento: i miliziani di Hezbollah non sono chiusi nelle caserme, sono tra la gente e i loro cercapersona o i loro walkie-talkie sono già esplosi mentre erano al mercato, per strada, ovunque. Chi può dire quali apparecchi non sono contaminati, quali bombe innescate ci minacciano anche ora, mentre parliamo al telefono?».
La paura disseminata sta producendo i suoi effetti. «Basta guerra, basta Hezbollah», dice un commerciante di Beirut, mentre l’aviazione di Israele colpisce edifici dove sono riuniti i leader della milizia sciita: «Hezbollah pianificava un attacco terroristico dal Libano come quello del 7 ottobre a Gaza», dice il capo di Stato Maggiore Herzi Halevi, «ma noi abbiamo colpito prima».
Gli attacchi in Libano e gli appelli degli Usa a Netanyahu
Hezbollah risponde con una pioggia di razzi che vanno ben oltre i limiti tacitamente concordati e ormai da tempo saltati. I missili dal Libano arrivano fino ad Haifa, Nazareth, Tiberiade, Safed. Finora sono stati intercettati dalla difesa antimissile Iron Dome e dalla aviazione israeliana, ma la minaccia non è mai stata così pesante. Israele si sente in pericolo e ora risponde con massicci “attacchi preventivi”. È evidente che da Beirut arrivano informazioni precise su dove e quando si riuniscono i capi di Hezbollah.

Il premier Benjamin Netanyahu ha convocato il gabinetto di Guerra invitando anche i ministri ultra nazionalisti, Itamar Ben G’Vir e Bezalel Smotrich. Vuole la massima unità, ignora la manifestazione di centinaia di migliaia di persone che gli chiedono di trattare per la liberazione degli ostaggi e di sospendere gli attacchi: «Dobbiamo indebolire Hezbollah e Hamas prima di trattare», risponde, «Metà degli ostaggi sono vivi. Ma non è mostrandoci deboli che li salveremo».
Dagli Usa continuano ad arrivare appelli per evitare la guerra all out, l’invasione di terra che coinvolgerebbe tutto il Medio Oriente. Ma il colpo dei cercapersona ha dato forza al premier israeliano, benché il presidente Herzog dica che «Israele non ha nulla a che fare con quelle trappole esplosive». Ambienti dei servizi non smentiscono il presidente ma è un segreto molto mal celato. «Abbiamo colpito duro e al momento giusto, lasciando la leadership di Hezbollah barcollante sul ring», dice Eyal Pinko, ex ufficiale della marina e dei servizi: anche lui usa una metafora pugilistica.
La strategia del bottone rosso
I giornali lasciano trapelare che la partita di cercapersone minati sarebbe stata venduta agli Hezbollah da una società fittizia, forse coperta da una rete internazionale di intermediari, dietro ai quali ci sono gli stessi servizi segreti dello Stato ebraico. Fosse vero la beffa sarebbe atroce: Hezbollah compra dagli israeliani gli ordigni che gli israeliani gli fanno esplodere in tasca. Una notizia che circola con insistenza, ripresa dai più autorevoli giornali americani (New York Times in testa) e da quelli israeliani.
Di più: secondo il Jerusalem Post, che cita fonti del Mossad, da anni Israele ha allestito una rete di società fantasma che possono intercettare gli ordini di materiali destinati ai suoi nemici, nei quali inserire cariche esplosive. La chiamano “la strategia del bottone rosso”: ordigni silenti fin quando viene premuto il bottone rosso che li attiva. Ce ne sarebbero altri e non pochi tra gli Stati considerati un pericolo da Israele.
Lazar Berman, editorialista del Times of Israel, smorza l’entusiasmo: «Come è stato possibile che servizi così efficienti non si siano accorti di quanto stava per accadere il 7 ottobre?». La risposta dalla comunità dell’intelligence è la stessa da un anno ormai: «Lo avevamo detto ma i vertici militari hanno sottovalutato l’allarme e la politica lo ha ignorato. Ora che ci danno retta stiamo colpendo i capi nemici uno ad uno».
La guerra che continua a Gaza e la morte non confermata di Sinwar
Sul fronte sud Gaza è un cumulo di macerie, eppure la guerra va avanti, non ci sono conferme certe alla notizia fatta circolare la sera di sabato secondo cui sarebbe stato ucciso nei raid anche Yahya Sinwar, il capo di Hamas sopravvissuto alla tempesta di raid e ai missili che hanno decapitato Hamas e Hezbollah a Gaza, Beirut e Tehran. In Cisgiordania l’esercito israeliano entra senza nessuna opposizione da parte delle scarne forze regolari della Anp, l’amministrazione palestinese: combatte solo contro Hamas e le fazioni che controllano i campi profughi, da sempre divise tra loro.
Anche per questo Netanyahu non sembra aver fretta di fermare la guerra. Sta eliminando la leadership nemica, in Libano, a Gaza, in Cisgiordania e anche nelle basi siriane. Ha colpito a Tehran senza che l’Iran riuscisse a concretizzare la minacciata vendetta.
Non è una guerra indolore per Israele
Ma non è una guerra indolore per lo Stato ebraico. Israele vive una tensione continua, di allarme permanente, l’economia è in difficoltà, sessantamila piccole imprese hanno chiuso, alcune start up miliardarie si sono trasferite negli Stati Uniti. Netanyahu sembra sordo per ora agli appelli dell’Amministrazione americana, le dichiarazioni di Biden e dei candidati alla presidenza, sia Kamala Harris sia Donald Trump, non lo convincono. Le manifestazioni in occidente dei gruppi pro palestinesi che inneggiano all’anniversario del 7 ottobre sembrano averlo persuaso che ormai deve combattere da solo, forzando, se necessario, il riluttante aiuto americano. Ora si è tolto i guantoni.
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