Liberare il lavoro umano con l’educazione
È possibile dialogare di desiderio, lavoro e sviluppo economico anche partendo da assunti completamente differenti. Ci sono due rischi da evitare affinché la discussione non cada nel vizio dogmatico: 1) Cedere all’opzione ideologica (capitalista-sfruttatore; sindacato-mannaia del capitalismo). 2) Rigettare il punto di vista dell’altro, accusando di settarismo la visuale dell’interlocutore.
Parto da queste premesse per dire che ha ragione Giorgio Vittadini, quando afferma che: «Il mondo del lavoro e della produzione non chiede robot, chiede uomini capaci di ragionare, capaci di prendere coscienza di tutti i fattori [….] e più in generale che svolgano il loro lavoro con entusiasmo ed intelligenza». Da una posizione di sinistra, considerata radicale, eleggo addirittura questo passaggio a: “Manifesto ideale”. È necessario però prendere visione di tutti gli aspetti della situazione. Allo stato attuale delle cose, il tessuto produttivo italiano è ancora in una regressa fase di gestazione rispetto a questa impostazione. L’esperienza viva all’interno del luogo della produzione mi consente infatti di mettere sotto il riflettore l’aspetto alienante e fortemente autodissolutorio di gran parte delle nostre unità produttive (manifatturiere e non). La realtà è quella di operai che non sanno neppure cosa stanno producendo e di imprenditori che non hanno alcun interesse a renderli partecipi di quanto succede. Le industrie sono piene zeppe di gente che “addestra”, che “forma” il lavoratore ad eseguire semplicemente il compito assegnato. Proprio come dei robot. Consapevolezza, intelligenza e coscienza sono attributi e doti che non vengono richieste. I soggetti “soggetti” ad alienazione sono aumentati quantitativamente nel corso della rivoluzione capitalista. Non solo gli operai e gli addetti alla bassa manovalanza sono divenuti i soggetti alienati, ma sempre più anche il cosiddetto lavoro intellettuale (impiegati e tecnici) ha subìto la stessa sorte. La standardizzazione dei processi e la codifica dei linguaggi hanno generato un sostanziale svuotamento dell’attività stessa, privilegiandone la meccanizzazione. La conoscenza è asservita alle necessità di produzione e la subordinazione culturale è sempre più elevata. In poche parole anche il cervello viene messo al “lavoro”; ad esso vengono richieste competenze specifiche, ma non doti di autoconsapevolezza e autonomia culturale. Spesso l’unico obiettivo per il lavoratore è il conseguimento del salario. In una sorta di coazione a ripetere il lavoratore timbra il cartellino di entrata sperando solamente di giungere, nella maniera più veloce possibile, alla fine del turno di lavoro. Tutto ciò effettivamente, come sottolinea Vittadini, non giova in primo luogo alle aziende e neppure al lavoratore che finisce per attribuire al concetto di lavoro un significato accessorio. Non si tratta qui di additare colpe agli uni o agli altri, ma di costruire quel motore indispensabile per edificare una comunità libera da desideri imposti e lanciata propulsivamente verso la propria liberazione. Cultura ed educazione, i due elementi indispensabili.
P.s.: Capitano cose strane. Un paio di sera fa anche noi di RedAzione eravamo in giro per le strade dei nostri paesi per dar forza alla nostra campagna elettorale. Nel corso della serata ci imbattiamo così in un altro gruppo di “manovali-militanti”: i sostenitori di Mauro. Ovviamente ciellini ed ovviamente lettori di Tempi. Mi conoscono e mi stimano, quindi iniziamo a chiacchierare tra secchi di colla, scope e rotoli di carta. Stipuliamo anche un patto, una sorta di gemellaggio tra diversi. Capitano cose strane. Delle belle cose strane.
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