L’IMMENSITà DONATA DEL CIELO

Di Marina Corradi
16 Settembre 2004
E' una fotografia in bianco e nero, esposta accanto all’ingresso della sala da pranzo dell’albergo, in montagna

E’ una fotografia in bianco e nero, esposta accanto all’ingresso della sala da pranzo dell’albergo, in montagna. In un primo momento la guardi distrattamente. Poi la vedi, e allora le incolli addosso gli occhi.
Intorno al 1940, uno sconosciuto alpinista è salito in cima a una delle Pale di San Martino. Nella foto il cielo è di una giornata d’estate, a destra in alto una nuvola non minacciosa, di quelle che si levano dopo mezzogiorno, quando fa caldo, nell’aria immobile.
Lo scalatore è magro, e sembra molto giovane. Di certo ha intrapreso la scalata col buio, e alla luce dell’alba ha conquistato la cima. Era solo? Il chiarore terso del giorno nuovo sulle Dolomiti, nel silenzio assoluto, sotto i suoi piedi. Sospeso fra la terra e il cielo, fra l’orgoglio di sé e la gratitudine. Ma tutto questo non è ancora abbastanza. Da lassù getta, come un lazo, una corda nel vuoto, verso una vetta accanto di poco più bassa. E ora su questa fune precaria sta passando, il cielo sotto di lui e quello sopra, infinito. Nell’immagine che lo coglie e lo fissa per sempre in quell’attimo lontano sulle Pale, il giovane alpinista non dà l’idea di aver paura, non è, a quella fune, avvinghiato, ma sciolto ed elastico giostra. Sembra che giochi. Addirittura, parrebbe ebbro di gioia.
Resti a guardare, e dapprima fai i conti: metti che lo scalatore sconosciuto intorno al 1940 avesse vent’anni, oggi ne ha più di ottanta – se vive, e ti immalinconisce il pensare al declino di quella sua meravigliosa grazia, mentre fiere e inalterate continuano a guardarlo, come quel giorno, le Pale.
Eppure, altro ha da dire la foto in bianco e nero, e torni a guardarla, come se non t’avesse raccontato tutto. Qualcosa in quell’immagine ti commuove. Il ragazzo aveva già conquistato la Pala. L’aveva presa – un prendere nobile, con fatica, ma sempre un conquistare, un possedere con sforzo estremo, le dita adunche a cercare il sostegno. Poi, in cima, la fune lanciata, quel gioco in mezzo al cielo. Oltre la conquista, oltre i muscoli tesi nello spasmo dell’arrampicare.
Oltre il possesso, in una gioia che traspare in quell’acrobazia da vertigine, in una ritrovata innocenza verginale. Nulla da stringere nelle mani, e nessuna paura, nell’immensità del cielo regalata. L’ansia del possesso contro la libertà di chi al possesso ha rinunciato; e in un ritrovato affidamento totale torna bambino, e si inebria come per una corsa, da piccolo, in un prato, il vento in faccia. Ecco cosa nascondeva la foto in bianco e nero, e perché tornavi a guardarla. E son passati oltre sessant’anni da quel giorno d’estate caldo e immobile – e quel ragazzo, chissà.

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