
L’impotenza al governo (e al telefono)
La vicenda Telecom ha mostrato per l’ennesima volta i difetti del capitalismo di relazione italiano. Quando funziona, vede i maggiori attori del sistema bancario sostenere per anni imprenditori che controllano imprese con quote esigue e alte leve finanziarie attraverso scatole cinesi, dando loro modo di accumulare errori e ripensamenti che si traducono in un danno per l’amplissima platea dei soci di minoranza. Quando il sistema non funziona, magari perché i vertici di Intesa e Capitalia formulano legittimamente valutazioni diverse, ecco che il capitalismo italiano si divide in due. I soggetti deboli soccombono, e vengono assorbiti e fatti a pezzi dall’uno o dall’altro polo bancario. Chi invece non piega la testa combatte a modo suo, come Marco Tronchetti Provera, che alla fine, tentativo dopo tentativo, con solo il 18 per cento di Telecom e i creditori contro, ha messo le banche schiena al muro di fronte al fatto che il prezzo d’uscita è quello che dice lui. Con il bel paradosso che le banche si trovano in difficoltà a contestare Tronchetti, visto che sono sindacate con lui tanto “sopra” (in Pirelli, interessata a vendere al massimo prezzo) quanto “sotto” (in Telecom, dove come potenziali acquirenti rivali degli stranieri gli istituti di credito hanno interesse invece al più basso prezzo di acquisto).
È fin troppo evidente che siffatto capitalismo di relazione non ha in sé la forza di trovare soluzioni convergenti, e che le sue divisioni spalancano spazi per grandi attori stranieri. È inutile lamentarsene. Anzi, c’è perfino chi, come Innocenzo Cipolletta, benedice l’arrivo di capitali esteri: perlomeno verso chi sgarra non si useranno più i guanti bianchi, come accade invece verso i “soliti noti” grandi gruppi italiani (vedi la sospensione Consob a danno di finanzieri e legali del gruppo Ifil che controlla Fiat, rei di aver mentito al mercato per mantenere il controllo dell’azienda torinese nelle mani degli eredi Agnelli, sanzione ovviamente congelata dai magistrati).
Ma se forme, protagonisti e regole del mercato sono lenti a cambiare, la politica invece potrebbe tentare di migliorare questa situazione tanto deludente in tempi rapidi. Chi scrive è un liberista, dunque mai auspicherebbe rigurgiti statalisti e rinazionalizzatori. È invece puntualmente ciò che è avvenuto l’estate scorsa col governo Prodi, in occasione del famigerato “piano Rovati”. Ecco perché la politica si è trovata nella migliore delle ipotesi a balbettare di fronte ai nuovi sviluppi della guerra per Telecom. C’è perfino chi riscopre la bontà del piano di allora, come Piero Fassino. Ed è cosa che addolora, non solo perché davanti a una tale resipiscenza fuori tempo Tronchetti con la sua resistenza giganteggia. Ma anche perché fa capire quanto sia fragile e incerta la componente sedicente riformista del centrosinistra. Prodi, questa volta, si è attenuto a lungo a una linea di maggior prudenza. Più che saggezza, è sembrata impotenza l’affidamento a banchieri amici, al cospetto dei quali in fondo Prodi ormai ha assunto le vesti di burattino più che di burattinaio. Sono giudizi forti, lo so. Ma non sono espressi con compiacimento. Quando le cose vanno così male, solo politici capaci di rispettare il mercato e di far valere le regole per tutti hanno l’autorevolezza per intervenire senza dare adito al sospetto che lo facciano per levare dal mercato asset come la rete telefonica, oppure per consentire che le rilevino gli amici. Alzi la mano chi, dopo il piano Rovati, è immune da tale sospetto nei confronti del governo Prodi.
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