
L’Io, tra Robinsonate e oratorio
In un articolo pubblicato su La Stampa dell’8 maggio, Mario Deaglio afferma che, seguendo il consiglio del sociologo Bruce Ackermann, il rimedio agli squilibri sociali potrebbe essere superato, dando a ogni giovane americano la propria “fetta” della ricchezza nazionale nel momento in cui giunge alla maggior età. Ackermann fissa tale “fetta” a 80mila dollari, il prezzo di una buona istruzione universitaria. Questo “gruzzolo” può essere amministrato come si vuole: uno può diventare imprenditore oppure dilapidare tutto. A ben vedere, questa proposta sembra la rivincita sullo statalismo: invece che “dalla culla alla tomba”, il “fai da te”, che dovrebbe promuovere i meritevoli e scoraggiare gli incapaci, in una sorta di nuovo gioco alla Robinson Crusoe portato dall’isola deserta a tutta la società. Ma grattando un poco più in profondità l’idea di questa proposta, non si può che rimpiangere il vecchio oratorio. Infatti fin lì, nel punto più “apparentemente chiuso” del mondo cattolico ambrosiano, insegnavano già ai bambini di dieci anni, parlando di politica, che non importa cambiare i sistemi se prima non si cambia l’uomo. Magari non spiegavano neppure la ragione di questa asserzione, ma chi ha avuto la fortuna di incontrare educatori, sa quanto sia vero questo vecchio refrain con cui la Chiesa ha sempre osteggiato il comunismo. Per dirla alla napoletana “nessuno nasce imparato”, nessuno diventa imprenditore per decreto o per assegno. C’è bisogno di qualcuno che insegni che cosa sia il coraggio, il rischio, l’amore alla realtà, il gusto del bello, la carità. In America, come nella Russia anni Sessanta, tra i no-global e gli imperialisti, tutti dimenticano l’educazione, quel processo per cui nulla è meccanico, ma tutto è avvenimento dell’io. Senza i Fra Cristoforo, i Renzo si perderanno sempre.
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