L’Islam,l’imperatore e Roma

Di Luigi Amicone
15 Marzo 2000
Giovanni Paolo II star dei diritti umani, ma il suo magistero è negletto e attaccato dal politcally correct. La chiesa cattolica cartolina dei valori e serbatorio di infermiere e di volontari? Perché una certa partita si gioca ancora a Roma, e non a Bruxelleles o a New York. Dopo il tramonto del protestantesimo, l’Imperatore (anche della socialdemocrazia europea) favorirà l’islamizzazione d’Europa per indebolire il Papato e riaffermare la ledership del governo (anche religioso) americano sul pianeta? Una (prima) ipotesi di lettura di sommovimenti profondi a partire da Solov’ëv

Come andiamo documentando da tempo su questo giornale, vi è un pensiero e un’azione politica conseguente a livello dominante e planetario che sconsiglia l’amicizia con la chiesa cattolica. In un altro senso si può dire che tanto è popolare l’umanità di Giovanni Paolo II, tanto è impopolare il suo Ministero, tanto commuove sinceramente l’immagine di quest’uomo che per le sue idee batte in lungo e in largo le vie del mondo, tanto si avverte – solo per accennare diverse gradazioni di un fenomeno ovviamente più complesso – una non curiosità, un’estraneità muta, una aperta avversione, ai contenuti del suo discorso, e soprattutto a ciò a cui la sua persona inesorabilmente rinvia. In altre parole: il Papa piace, ma non interessa quello che porta. E non interessa un po’ per semplice distrazione, un po’ per comune disposizione d’animo (la quale è in larga parte plasmata da quel continuum di potenza mediatica, economica e politica in cui siamo quotidinamente immersi) che quand’anche risultasse sollecitato – anche in presenza di cataclismi di ammirazione e cateratte di stupore – non è poi concretamente aiutato a impegnarsi con lealtà, realismo e razionalità, con quel Cristo diagnosticato nei discorsi del Pontefice romano, il quale per altro è certamente un uomo, ma pretende anche di essere l’autentica voce di Dio in terra, giacché, dice la dottrina cattolica, il Papa è il capo della Chiesa, la quale è a sua volta, dice la teologia cattolica, “la realizzazione sulla terra del regno di Dio” (Karl Adam); per dirla con sant’Agostino: “La chiesa attuale è il regno di Cristo ed il regno dei cieli”.

Dunque: va bene il Papa dei diritti umani, non va bene più, anzi “ti sentiremo un’altra volta” se – come dissero gli ateniesi a Paolo che pure li aveva fino a quel momento affascinati col suo spledindo comizio – dal senso religioso comune a tutti gli uomini di tutte le epoche, si passa alla inaudita, brutale e scioccante affermazione che Dio si è fatto uomo, uomo che abeat palles et bene pendentes e che per giunta non è un filosofo tipo Umberto Eco, ma un tale figlio di falegname che è nato e vissuto in uno sconosciuto paesino della periferia dell’Impreo romano e che oggi sarebbe incontrabile in quella Chiesa, di cui sopra abbiamo detto la pretesa.

L’Islam nell’Europa del 2000: perché c’entra con il bimillenario scontro tra Roma e Bisanzio Ci sarebbero tante altre cose da dire in proposito. Ma il libro lo scriveremo un altro giorno. Adesso, per l’economicità del nostro discorso, limitiamoci a formulare qualche questione che poniamo a Vladimir Solo’ëv, dopo che egli ci ha fatto sobbalzare le budella e – lui che scriveva sul finire del 1800, apogeo della modernità e vigilia di due grandi guerre e di catastrofi totalitarie in Russia e in Europa – forse ci indica ancor oggi una via di interpretazione di questa splendida postmodernità post-protestante e, nei fatti, almeno in Europa (e magari con la bendezione dell’imperatore yankee la cui religione temporale a tutto soprassiede grazie alla potenza politica, economica e militare) multicultare al punto da ammettere buddsimo e islam sullo stesso piano della tradizione ebraico-cristiana. L’osservazione da cui ci siamo fatti folgorare è la seguente: non è un caso, dice Solov’ëv che l’impero bizantino sia finito ad opera dell’Islam che è “il bizantinismo coerente e sincero, liberato da ogni contraddizione interiore” e che, riassumendo in sé le due grandi eresie del VII e VIII secolo, il monotelismo e l’iconoclastia, “vede nell’uomo una forma finita senza alcuna libertà e in Dio una libertà infinita senza alcuna forma. Una volta che Dio e l’uomo siano stati così fissati ai due poli opposti dell’esistenza, non vi è alcun nesso fra loro, ed ogni realizzazione discendente del divino al pari di ogni spiritualizzazione ascendente dell’umano resta del tutto esclusa; e la religione si riduce ad un rapporto puramente esteriore tra il creatore onnipotente e la creatura che è privata di qualsisasi libertà e non deve altro al suo signore se non un semplice atto di devozione cieca (è questo il senso del termine araboislam)”. Eliminato il polo della libertà umana e negati i segni concreti della presenza di Dio nel mondo (in che miserande condizioni si trova – ammesso che esista ancora – la poesia e l’arte cristiana?) la teocrazia o la secolarizzazione assoluta del potere temporale sembrano presentarsi come due facce di una stessa medaglia: un potere mondano, clericale o laicista esso sia, che parla in nome del Libro o della Legge, del dono della profezia democratica o dell’immobilismo teocratico, ma che in ogni caso esige obbedienza cieca della persona. Che si tratti di Internet o della Shaaria a questo punto è solo questione di latitudine. Nella scoperta di questo nuovo scenario, che dopo 2000 anni sembra avere ancora la Roma di Pietro come referente oppositivo, lasciamoci guidare dalla singolare apologia della Chiesa – apologia della libertà in essa e da essa procedente per tutti gli uomini – fatta da Solovev, di cui qui di seguito riportiamo un ampio intervento, tratto come il precedente, da “La Russia e la Chiesa universale, nella edizione curata da Adriano Dell’Asta per i tipi della Casa di Matriona.

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