
Lo scandalo del celibato
uando, in quinta elementare, mi chiesero di fare il chierichetto, mio padre si oppose. Aveva promesso di difendere la mia fede, mi spiegò, e avvicinandomi troppo ai preti avrei potuto perderla, o – cosa che gli sembrava addirittura peggiore – avrei potuto diventare uno di loro. Mio padre era nato in Spagna e nelle sue vene scorreva anticlericalismo spagnolo. La sua obiezione principale era contro il celibato ecclesiastico. Penso che dividesse i preti in tre categorie: santi che vivano il celibato, canaglie che se ne approfittano per nascondere desideri sessuali di cui si vergognano (come l’omosessualità) e quelli che barano. Siccome io non davo segni di santità, credo che mio padre temesse che avrei potuto finire in una delle ultime categorie. Molti anni dopo, quando fui sul punto di decidere la data delle nozze assieme alla mia fidanzata, scoprì che non potevo più resistere. La mia seconda Messa dopo l’ordinazione sacerdotale la celebrai sulla tomba di mio padre. Spero che possa capire. Oggi, a ogni nuova rivelazione di casi di pedofilia nel mondo ecclesiastico, oltre allo sgomento e alla rabbia, sento ancora su di me le voci di quelle antiche accuse. Temo che i miei chierichetti maschi e femmine – per non parlare dei loro genitori – possano guardarmi come un vecchio sporco, ossia come una possibile minaccia. Quando si scopre un caso di abuso sessuale in cui è coinvolto un uomo sposato, dubito che il resto degli sposati si senta coinvolto e imbarazzato di fronte ad amici e parenti. Ma a causa dei voti che ho pronunciato, anche il solo indossare i paramenti sacerdotali mi spinge quasi a voler gridare: «Non sono uno di quelli!». Come mio padre a suo tempo, un numero sempre maggiore di persone ritiene oggi che questa vergognosa situazione sia dovuta al celibato. Secondo questa teoria, senza i consueti sfoghi naturali a un certo punto l’energia sessuale esplode in forme manipolatorie, fondate sull’abuso di potere. La mia esperienza di celibato, però, è diversa.
La storia di J.
Quando decisi di entrare in seminario all’età di 28 anni, ruppi con la mia fidanzata non perché avessi improvvisamente deciso che il matrimonio fosse sbagliato, ma perché lo richiede la legge della Chiesa. Se il celibato non fosse stato obbligatorio e mi avessero chiesto cosa ne pensassi, devo ammettere che lo avrei rifiutato. Stranamente, ho poi cominciato a comprenderne il significato nel momento stesso in cui lo stavo mettendo seriamente in questione. Un mio caro amico europeo, mandò il figlio a studiare negli Stati Uniti e mi chiese di averne cura. Quell’amico mi disse quanto quella separazione lo facesse soffrire. Gli risposi che lui almeno aveva un figlio, mentre io non avrei mai vissuto l’esperienza di diventare padre. Questo aspetto del celibato, gli dissi, è molto più difficile da accettare che non la mancanza di compagnia sessuale. «Ma tu hai molti figli e molte figlie», mi rispose. «Guarda come ti seguono i giovani. Per loro sei come un vero padre». «Sì», replicai, «ma siamo onesti. Questi non sono davvero miei figlie e mie figlie. Tutti loro avrebbero potuto esistere anche se non fossi esistito io. Non sono miei figli nel modo in cui J. È tuo figlio». «Ma Lorenzo, questo è il punto», disse. «J. non è mio figlio. Io non lo posseggo. Debbo rispettare la sua libertà. E credo sia questo il motivo per cui i preti fanno voto di castità: per aiutare i genitori a comprendere che amare non significa possedere, ma affermare, aiutare e lasciare liberi». In quel momento capii che il celibato ha più a che fare con la povertà che con il sesso. È l’espressione radicale della povertà del cuore umano, quella povertà che rende possibile il vero amore evitando che esso si corrompa in possesso e in manipolazione. Per questo gli abusi dei sacerdoti sui minori sono così scioccanti, così orribili, così distruttivi. Perché mettono il celibato al servizio del potere e della brama, non dell’amore.
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