L’obiettivo che manca al governo Prodi

«Manca un grande obiettivo». Il rilievo al governo Prodi è venuto da uno che se ne intende, di manovre finanziarie, da un esponente delle istituzioni che agli italiani a suo tempo chiese molto: e non solo perché aveva e ha il prestigio di chiamarsi Carlo Azeglio Ciampi, ma, appunto, perché c’era un obiettivo chiaro, che allora era l’Europa. Nella Finanziaria di Prodi e Padoa-Schioppa, quell’obiettivo semplicemente non c’è. Dopo cinque anni passati – è mestiere dell’opposizione – a sparare a zero contro il governo Berlusconi e impiegati con crescente ostentazione in fabbriche del programma destinate a rendere coesa e affinata la comune strategia politica da porre in atto non appena si fosse conquistato il governo, ecco che alla prova dei fatti il premier e la sua coalizione si sono rivelati privi proprio di un orientamento di fondo capace di parlare al cuore e alla testa degli italiani, tale magari da giustificare a molti di loro che si potesse picchiare con forza nei loro portafogli.
Personalmente, è una sorpresa che riguarda più Prodi, che Padoa-Schioppa. Le capacità politiche del timido ex banchiere centrale non potevano certo essere sopravvalutate. Ma l’ex presidente dell’Iri è storia diversa, lui ha attraversato per decenni i mari perigliosi della politica. Se oggi il suo messaggio “più redistribuzione” vede la rivolta in primis della Lega delle cooperative e delle associazioni degli artigiani che tradizionalmente sono schierate a sinistra, dipende da qualcosa di più dell’evidente accanimento iperfiscalista che di questo governo è diventato, in soli tre mesi, la vera e pressoché unica cifra unificante agli occhi degli italiani. E che spiega la picchiata nei sondaggi di popolarità, una picchiata dalla quale, quando è di tali proporzioni, per un governo è praticamente impossibile riprendersi. Non è solo l’eccessiva arrendevolezza del governo all’ala più estremista della Cgil e a Rifondazione nell’impostazione dei provvedimenti che non reggono neppure fino al momento dell’esame parlamentare (come fu per la straordinaria mazzata immobiliare di quest’estate poi riscritta da Visco quando si rese conto che era sottostimata di trenta volte, com’è avvenuto per il Tfr, come avviene per la stessa curva delle aliquote Irpef), è proprio la mancanza di visione di un “motore riformista” del governo, il problema. È l’ultima grande occasione di Prodi, quella che sta sfumando sotto i colpi delle agenzie di rating internazionale.
Eppure, amettiamolo, non sarebbe stato troppo difficile. Quando si vara una manovra che solo per meno di un terzo è giustificata dai saldi da garantire a Bruxelles, e per due terzi alimenta invece con più tasse nuovi meccanismi di spesa che negli anni a venire chiederanno ancor più risorse, lo spazio per rivolgersi prioritariamente a quella piccola e media impresa che dello sviluppo italiano rappresenta una fetta tanto essenziale c’era tutto. Bastava per esempio aver letto lo straordinario ultimo libro di Raffaello Vignali, Eppur si muove, per concentrarsi a risolvere un’apparente aporia italiana. Siamo abituati a ripetere che le Pmi italiane non investono e non fanno innovazione in paragone a Francia, Germania e Regno Unito. Eppure la media della loro innovazione di prodotto è superiore del 60 per cento a quella europea. Se avesse letto il libro, forse Prodi non avrebbe fatto scivoloni tanto gravi concentrandosi sui “poteri forti”, contro i Benetton su Autostrade e Tronchetti su Telecom. Ma avrebbe trovato il “grande obiettivo” che alla Finanziaria manca. E che, almeno oggi, lo condanna alla caricatura di un Grande Inquisitore fiscale.

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