
L’Ulivo che sogna un Vaticano Ballarò
Scrivo quanto segue da laico non laicista, e premetto come guida all’uso che accetto la distinzione tra i due termini che invece fa imbizzarrire parte della mia cultura di formazione – risorgimentale per fede e anticlericale per vocazione – convinta che essa sia un mero artificio per distinguere chi ha deciso per convenienza di attenuare le proprie convinzioni separatiste da chi invece le coltiva con coerenza. Io penso che non sia così, e non lo faccio dipendere dagli interrogativi sempre più stringenti che mi ha posto negli anni la lettura e rilettura della Scrittura, perché quello è discorso che riguarda la mia coscienza e problema della mia fede, non criterio interpretativo per me cittadino e osservatore di professione della vita italiana. Penso che il “laico” si differenzi dal “laicista”, con tutta l’approssimazione che ha ogni formula omologante, perché il primo ha preso atto della fine della questione romana prima, del privilegio concordatario del ’29 poi, nonché del rischio di perenne ambiguità rappresentato dal collateralismo a quello che fu per decenni il partito unico dei cattolici. Per il laicista, invece, nessuno di quei tre capitoli, chiusi dall’Italia unitaria prima, dal Nuovo Concordato poi, e infine dal bipolarismo maggioritario, basta in sé e per somma complessiva a superare le vecchie e sagge formule che erano un tempo di Cavour ed Ernesto Rossi, e oggi sono di Giuseppe Alberigo, Alberto Melloni, Oscar Luigi Scalfaro e Raniero La Valle, i firmatari dell’appello alla Cei perché si guardi bene da quell’annunciata provocazione che sarebbe la nota ufficiale in materia di Dico. Tale nota è destinata a creare un conflitto tra la condizione di credente e quella di cittadino, sostengono i firmatari dell’appello, evocando addirittura l’ombra del “non expedit” o, come ha fatto Eugenio Scalfari, quella dell’operazione Sturzo, definita secondo il nostro armamentario un tempo comune “clerico-fascista”.
Il problema del laicista, che comunque rispetto e continuerò a rispettare pur non condividendone più le rigidezze, è che non riesce ad accettare l’idea che l’evoluzione storica abbia confinato per fortuna al passato la condizione per la quale Pasolini scriveva: «La Chiesa è lo spietato cuore dello Stato». La convinzione alla quale è giunto il laico non più laicista, invece, è che da tempo in Italia sia giusto abbracciare le sagge parole di Martin Luther King, secondo il quale «la Chiesa non è la padrona o la serva dello Stato, ma al più la coscienza dello Stato». Ho scelto apposta la citazione più veltroniana possibile, per rendere più evidente che la voce della Chiesa non può essere apprezzata dalla sinistra solo quando essa si leva a favore della pace e dei diritti dei poveri ed emarginati. Va apprezzata e compresa – non dico per questo condivisa – nella sua interezza, ma innanzitutto rispettata e difesa nella sua più piena e libera facoltà di espressione. Anche quando parla di famiglia. Anzi, soprattutto quando parla di famiglia, tema che da sempre è al centro del suo magistero. Che anche politici cattolici di lungo corso vedano in tutto ciò addirittura un attacco a freddo al governo Prodi, volto a creargli difficoltà concomitanti con quelle che si registrano su altri tavoli come la politica estera e la vigilanza contro le infiltrazioni sovversive e brigatiste, è stupefacente, almeno per un laico come me. Sarebbe come pretendere che la Chiesa gradui le sue affermazioni tenendo conto del numero di seggi di vantaggio di cui gode una qualsivoglia maggioranza al Senato. Ammettiamolo, una considerazione della Chiesa italiana più vicina a Ballarò che alla testimonianza della fede.
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