Ma perché se i ragazzi sono somari la colpa è sempre e solo della scuola?
Poche idee sono tanto stupide e devastanti come quella secondo cui la scuola è un'”azienda” e gli studenti e le relative famiglie sono “utenti” o “clienti”. La scuola non offre “prodotti” o “servizi” e neppure soltanto istruzione. La scuola ha un compito educativo e l’educazione «non è solo un problema di istruzione o di avviamento al lavoro», ma è volta a «costruire la persona e quindi la società» (www.appelloeducazione.it). L’allievo non è il compratore di una merce o l’utente di un servizio ma una persona che adempie un obbligo formativo per sé e per la società; e il professore non è un impiegato allo sportello o un addetto alla “socializzazione del processo di apprendimento” (come recita il ridicolo lessico di certo pedagogismo), ma un “maestro” la cui autorità deriva dalla funzione che gli è stata assegnata di fronte ai ragazzi: «Una sorta di rappresentante di tutti i cittadini che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo» (Hannah Arendt).
Invece, secondo la visione aziendalista, lo studente va a scuola per ottenere il massimo con l’impegno minimo, come al supermercato si vuole comprare una scatola di pelati al miglior rapporto qualità/prezzo o all’ufficio postale si vuol pagare il conto corrente senza fare code; altrimenti si protesta, si chiede un indennizzo o la punizione dell’impiegato inefficiente. Di conseguenza, le famiglie sono state (dis)educate a pensare che il “pupo” va a scuola per ottenere il massimo senza stressarsi o stancarsi. Non capiscono perché mai non abbia il diritto di stravaccarsi su un banco, di fare chiasso, di telefonare e di non dar retta all’insegnante. Sono state però convinte che debba ottenere comunque buoni risultati, altrimenti è colpa della scuola che “non funziona”. Il tragicomico è che c’è chi crede che questa visione sia ispirata a efficienza manageriale mentre è soltanto riflesso di uno stolido egualitarismo per cui la scuola è efficiente se fa andare avanti tutti. Per realizzare il mito totalitario secondo cui dobbiamo diventare tutti uguali, occorre allinearsi al passo dei nullafacenti e degli indisciplinati, anziché spingere tutti verso l’alto. È l’ideologia che ha ispirato quindici anni di riforme “progressiste” che il centrodestra ha avuto il torto supremo di non azzerare, affidandosi anzi alle cure delle stesse lobby di “educatori” che le avevano architettate.
Di che stupirsi allora se vediamo padri che prendono a cazzotti il professore perché ha dato un brutto voto al cocco? Ormai persino all’università si fanno vivi genitori a protestare per il voto preso dalla loro prole in materie di cui non capiscono neanche il nome. E di che stupirsi se professori in piena crisi di nervi tirano schiaffi o addirittura impugnano forbici per tagliare lingue di bambini troppo “vivaci”? Sia ben chiaro, capire non significa giustificare. Detesto le giustificazioni sociologistiche. Se i treni funzionano in modo indecente è ovvio che ci si innervosisce, ma ciò non autorizza a prendere a pugni il controllore o a fare la cacca sui sedili. La violazione dei diritti non giustifica che si commettano reati e si taglino lingue. Ma quel che è francamente inaccettabile è che il giustificazionismo sociologico sia a senso unico. Per l’insegnante che perde la testa intervengono le autorità a sollecitare la (sacrosanta) punizione. Ma quando un preside sequestra i cellulari di cui è impestata la classe o se in una scuola ci sono troppi bocciati, si grida alla repressione, vola l’accusa di inefficienza e insegnanti e presidi sono costretti a piegare la schiena. E poi ci si lamenta che la scuola è allo sbando totale.
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!