Macedonia, ultimo atto

Di Gian Micalessin
16 Agosto 2001
1991-2001. O della dissoluzione jugoslava. L’implosione di Skopje sarà il tragico epilogo di dieci anni di polverizzazione dell’ex regno comunista del Maresciallo Tito. Le conseguenze? Devastanti. Specie per l’Europa. Il nostro inviato di tutte le guerre racconta come si è arrivati all’ennesima follia disgregatrice. E perché c’è ben altro di cui occuparsi, in Italia, piuttosto che di marce anti-G8 di Gian Micalessin

Le prime parole del primo capitolo sono state scritte il 26 giugno 1991. Il giorno prima Lubiana e Zagabria hanno detto addio a Belgrado.

Dieci anni di disintegrazione

Quella sera un elicottero sorvola la capitale slovena. Trasporta viveri e rifornimenti per i militari dell’esercito federale jugoslavo asserragliati nelle caserme circondate dai miliziani indipendentisti. Un missile solca il cielo… I tronconi del velivolo e i cadaveri del suo equipaggio precipitano nelle strade di Lubiana. È il segnale. Il governo indipendentista annuncia un attacco aereo. Quell’elicottero inoffensivo diventa il simbolo della violenza accentratrice di Belgrado. Poco importa che non sia vero. Quel piccolo grande inganno segna l’inizio di un processo a catena. Per dieci anni Unione Europea, Nazioni unite, Nato e Stati Uniti si ritrovano risucchiati in un labirinto di negoziati, interventi armati e operazioni di peace keeping che, su uno scenario di stragi reciproche, disintegra la credibilità delle nazioni occidentali e delle istituzioni internazionali. I massacri di Croazia e l’allargamento del conflitto alla Bosnia sanciscono nel 1991 il fiasco dell’Unione Europea come potenza mediatrice. La stagione della pulizia etnica e delle stragi di Bosnia, tra il ’92 e il ’95, diventano l’emblema dell’inettitudine dei Caschi Blu. La pace made in Usa, di Dayton, dà vita nel ‘95 al puzzle irrisolvibile, senza una presenza armata internazionale, della Bosnia. In Kosovo la Nato si dimostra incapace di realizzare e di garantire quella pace multietnica in nome della quale aveva dichiarato guerra a Slobodan Milosevic. Di queste esperienze nessuno sembra aver fatto tesoro.

Dal Kosovo ai commerci (verso l’Italia) di armi, prostituzione e droga

L’ultimo capitolo delle guerre balcaniche, apertosi ai primi di marzo in Macedonia, è pronto a dar vita ad una replica esatta delle tragedie di Croazia, Bosnia e Kosovo. L’incombente tragedia macedone è figlia primigenia della crisi kosovara. Uscita dalla federazione jugoslava nel 1991 questa repubblica di due milioni di abitanti, nonostante il suo esplosivo cocktail etnico e la presenza di una minoranza albanese pari al trenta per cento, è rimasta sostanzialmente tranquilla fino all’inizio della guerra in Kosovo. Per dieci anni la lotta degli albanesi per il riconoscimento dei loro diritti costituzionali, linguistici e culturali rimane confinata al terreno della legalità. Dopo la vittoria alle elezioni del 1998 dell’Vmro, il partito di centro destra che raccoglie la maggioranza dei voti slavo macedoni, il primo ministro Ljubko Georgievski dà vita ad un governo di coalizione con Arben Xhaferi, leader del Partito Democratico Albanese. Il malcontento della minoranza sembra insomma gestibile. La situazione cambia repentinamente all’inizio della guerra del Kosovo. Le forze della Nato trasformano la Macedonia in un’immensa retrovia per le truppe destinate ad occupare il Kosovo e di appoggio logistico per i guerriglieri kosovari dell’Uck. I primi a trarne vantaggio sono i clan albanesi dei monti Sharit al confine con la provincia serba. Tra le gole di queste montagne aspre e inaccessibili la “fratellanza” albanese è sopravvissuta per decenni alla repressione dei regimi comunisti di Tito e Enver Hoxa. Da qui fuggivano gli albanesi di Tirana diretti in occidente. Da qui entravano i rarissimi beni di consumo occidentali reperibili in Albania negli anni dell’isolamento. Con la dissoluzione della ex Jugoslavia e la fine del comunismo di Tirana, i clan albanesi dei monti Sharit si riciclano trasformandosi in signori del contrabbando di droga, armi, sigarette e schiave della prostituzione verso l’Europa. La Nato li trasforma in eccellenti combattenti. Alla vigilia della guerra del Kosovo molti di loro passano per i campi d’addestramento gestiti dalle forze speciali occidentali. Tra le montagne si scavano basi militari e ospedali da campo per i ribelli kosovari. Prende vita, insomma, il primo embrione di quella guerriglia armata che, nel marzo 2001, esordirà sul terreno macedone.

La guerriglia albanese in Macedonia

Il secondo embrione si sviluppa nella zona smilitarizzata disegnata intorno ai confini del Kosovo dalla Kfor dopo la ritirata delle truppe di Milosevic. Questa fascia di cinque chilometri di territori serbi, in cui l’esercito di Belgrado ha potuto rimettere piede soltanto tra marzo e giugno di quest’anno, è il teatro d’operazioni di una guerriglia albanese che punta all’annessione al Kosovo. Armi e combattenti arrivano direttamente dalle fila dell’ex-Uck kosovaro ufficialmente smilitarizzato. Al confine i soldati della Kfor chiudono (fino allo scorso ottobre) un occhio e anche due in nome della lotta a Milosevic. Le forze speciali inglesi e americane forniscono perfino addestramento ai guerriglieri della zona smilitarizzata. La situazione cambia repentinamente dopo la cacciata di Milosevic dal palazzo presidenziale. Riammessa nel consesso delle nazioni civili, la Serbia è pronta a riprendere possesso dei propri territori. L’unico intralcio è rappresentato dai guerriglieri albanesi. La Nato senza perder troppo tempo, dichiara di considerarli alla stregua di terroristi, chiude i canali di collegamento con il Kosovo e tratta il ritorno delle forze serbe. Il dado è tratto. Molti albanesi macedoni veterani della guerra del Kosovo e di quella combattuta nella fascia smilitarizzata decidono di continuare la lotta armata a casa propria. I primi attacchi si registrano a fine febbraio nelle zone di confine macedoni adiacenti la fascia smilitarizzata. A metà marzo la rivolta si diffonde tra le montagne Shari. Tetovo, seconda città macedone, capitale dei territori albanesi, si ritrova con la guerriglia alle porte.

Il ritiro Usa

Nel frattempo lo scenario internazionale sembra aver fatto un salto nel tempo. L’arrivo alla Casa Bianca di George W. Bush segna, per gli Stati Uniti, la fine del ruolo da protagonista nei Balcani. Abbandonata la politica balcano-centrica di Clinton l’amministrazione statunitense preferisce lasciare all’Europa la gestione dei negoziati nella zona. La crisi macedone finisce inevitabilmente nelle mani di Javier Solana e Chris Pattern, i due responsabili della politica estera della Ue. Nonostante siano trascorsi dieci anni dai tempi della crisi croata Solana e Patterns devono affrontare le stesse difficoltà dei loro predecessori. La prima è la lentezza decisionale di un coacervo di quindici Stati. I due negoziatori europei non possono decidere nulla senza il beneplacito di tutti i paesi membri. In secondo luogo non dispongono di alcun deterrente militare. Nel caso di necessità di un intervento armato l’Europa deve farsi da parte e lasciar posto alla Nato. Javier Solana e Chris Pattern, insomma, trattano a mani legate. E i risultati si vedono. A quattro mesi dai primi scontri nulla lascia intravedere un compromesso tra il partito di maggioranza relativa del primo ministro Ljubko Georgievski e le forze albanesi. La minoranza si dice determinata ad ottenere il riconoscimento costituzionale dell’identità nazionale fin qui negato, l’innalzamento dell’albanese a livello di lingua nazionale e la nascita di un’università finanziata dallo Stato. Ma la trattativa è inficiata dai reciproci sospetti. I macedoni temono che l’obbiettivo finale sia la secessione delle zone occidentali abitate dalla maggioranza albanese e la creazione di una grande Albania estesa sui territori di Tirana e del Kosovo. Per gli albanesi il governo punta soltanto alla repressione militare della rivolta.

L’ossessione complottistica. E “linee rosse”

In questo gioco di sospetti trovano spazio i fantasmi di complotti e cospirazioni. Una delle più diffuse attribuisce alla Nato la paternità della guerriglia Macedone. Alle prese con il difficile problema del futuro del Kosovo, destinato a ritornare parte della Serbia, la Nato avrebbe utilizzato i guerriglieri per dimostrare l’inaffidabilità albanese e giustificare la mancata concessione dell’indipendenza a Pristina. I macedoni accusano la guerriglia albanese di puntare ad un intervento Nato che creerebbe una spartizione di fatto del Paese. Infine le tesi albanesi attribuiscono al Vmro il tentativo di destabilizzare il Paese e offrire alla Bulgaria l’opportunità per un intervento militare a coronamento dei sogni d’annessione vecchi di oltre un secolo. Insomma il primo ministro non sarebbe altro che una pedina della Bulgaria. In questo clima il paese continua la sua corsa al precipizio. A marzo le analisi dei servizi d’intelligence occidentali indicavano tre linee rosse da non oltrepassare a nessun costo, pena l’irrisolubilità del conflitto. La prima era l’estensione della zona d’attività della guerriglia albanese. La situazione veniva giudicata controllabile fino a quando l’attività ribelle si limitava alle zone di confine con il Kosovo. La seconda era la coesione delle forze armate. Soltanto l’entrata in gioco delle forze paramilitari poteva determinare un clima da autentica guerra civile. La terza si basava dalla capacità di sopravvivenza politica del governo. Dopo quattro mesi di negoziati due linee rosse su tre sono state cancellate. I guerriglieri dell’Esercito di Liberazione Nazionale a giugno sono avanzati fino alle zone alla periferia di Skopje. La distribuzione di armi a 2000 riservisti della polizia e ai militanti slavo-macedoni ha portato il 25 giugno all’assalto del parlamento. Nella zona di Kumanovo abitata da comunità miste albanesi, serbe e macedoni, l’esplosione di un conflitto tra milizie armate è questione di giorni. La terza linea rossa si assottiglia giorno dopo giorno. Trasformatosi da uomo di compromesso in falco il primo ministro Ljubco Georgievski chiede la proclamazione dello stato di guerra e, ad Arben Ahaferi e al Pda, di definire la propria posizione: o con lui ed il governo o con la guerriglia.

Piani (balcanici) di spartizione…

Spingendo il partito albanese fuori dal governo Georgievski sembra premere per la fine delle ultime vestigia di convivenza e dell’ultima garanzia di dialogo. Ai margini di questa metamorfosi di Georgievski si diffondono voci di un piano per la spartizione del Paese. Ai primi di giugno è trapelato un progetto messo a punto da Georgi Efremov presidente dell’Accademia della Scienza e delle Arti della Macedonia. Efremov, in quello che lui stesso ha battezzato “piano per la salvezza della Macedonia”, prefigura lo scambio delle regioni occidentali di Gostivar e Tetovo con quelle albanesi di Pogradec e del lago di Prespa. Un piano, viste le conseguenze dei progetti elaborati dalle Accademie balcaniche (quella di Belgrado nell’87 gettò le basi teoriche della pulizia etnica), che non ha mancato di inquietare. Non

foss’altro perché ufficializza autorevolmente l’impossibilità di una convivenza pacifica. Ancor più inquietante è stata definita la mancata condanna del piano da parte di Georgievski che in seguito è stato perfino accusato di preparare un intervento militare bulgaro rivolto a trasformare la Macedonia in una provincia di Sofia. Un sospetto basato sull’offerta del presidente bulgaro Peter Stoyanov che, a marzo, aveva proposto l’invio di un corpo di spedizione per vigilare sulle frontiere macedoni e fermare le infiltrazioni della guerriglia dal Kosovo.

…e piani Nato

Certo a vigilare sul deterioramento della situazione macedone vi è anche la Nato. L’Alleanza Atlantica ha un bisogno disperato dell’aeroporto di Skopje per garantire i rifornimenti alle truppe della missione Kfor. Quindi esiste sicuramente un piano B che prevede un maggior coinvolgimento in caso di fallimento della trattativa. Ma bisogna vedere se il governo di Skopje sarà disposto ad accettare la presenza militare dell’Alleanza. La scorta concessa il 25 giugno dalle truppe americane della Kfor ai guerriglieri ritiratisi armi in pugno dal villaggio di Aracinovo, ha accresciuto i sospetti della popolazione macedone nei confronti dell’Occidente.

L’impressione è che slavi macedoni e albanesi, separati da un fossato sempre più incolmabile, si preparino a risolvere senza più intermediari e con gli sperimentati metodi balcanici i loro problemi. Così, dieci anni dopo, anche l’ultimo capitolo della dissoluzione jugoslava arriverà a compimento. Assieme alle vite di migliaia di persone.

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