
Mal di Euro
L’Euro ha la febbre. La neonata moneta europea mostra la corda di fronte alla prepotente avanzata del dollaro. L’avventura dell’unità monetaria degli 11 paesi europei si è incagliata nel primo scoglio trovato sulla rotta ed è già destinata al naufragio? I trionfalismi del gennaio scorso sono un lontano ricordo e la realtà di oggi è certamente molto più difficile di quanto banchieri e politici potessero immaginare al momento della sua nascita. Di chi è la colpa e quali sono le prospettive?
L’Italia è stata indicata come l’anello debole della catena e non c’è dubbio che, per il metodo usato dal nostro paese per centrare i parametri di Maastricht – basato soprattutto sull’aumento del prelievo fiscale -, il nostro paese non sta certo dando un contributo positivo alla stabilità dell’area monetaria comune. Le progressive stangate fiscali hanno abbattuto la crescita economica italiana, mentre il peso del carrozzone pubblico, inteso come zavorra d’inefficienza sistematica dell’apparato produttivo, è rimasto sostanzialmente inalterato. Anche la riduzione del deficit pubblico è stata infatti ottenuta aumentando le tasse a carico della parte economicamente virtuosa del paese, mentre ogni tentativo di riqualificare la spesa pubblica o di de-statalizzare i servizi di base (assistenza e previdenza, sanità, educazione e ricerca, poste e trasporti ecc.) si è scontrato con il lobbismo dei sindacati e dell’imprenditoria assistita.
L’Europa si italianizza e l’America si allontana In questa situazione però l’Italia è sempre meno isolata. Altre grandi economie europee, come Germania e Francia, in un progressivo scivolamento ideologico del baricentro politico europeo, si stanno rapidamente “italianizzando” e l’Europa in quanto tale sembra sempre più incapace di indirizzare le proprie risorse sulla strada del rilancio economico.
A questa situazione si contrappone il dinamismo dell’economia americana, dove il pragmatismo degli ultimi vent’anni ha creato condizioni di crescita economica costanti, efficienza dell’apparato pubblico, occupazione a massimi storici, in condizioni di assenza d’inflazione e scomparsa del deficit pubblico.
Di conseguenza il sistema produttivo americano è in grado di remunerare il capitale investito in misura superiore a quanto avviene in Europa. Chi investe in dollari ha un rendimento migliore di chi investe in Euro e, fintantoché il Vecchio continente non ritrova la via dello sviluppo il rischio di una svalutazione del dollaro appare lontano. Da qui la forte domanda di dollari sul mercato dei cambi.
Che speranze ha l’Euro? Non certo quello del suo scioglimento. Oggi un marco tedesco isolato, date le premesse politiche ed economiche attuali della Germania, non avrebbe molte chances di comportarsi in modo sostanzialmente diverso da quello che sta facendo l’Euro. Anche un rialzo dei tassi da parte della Banca Centrale Europea non dovrebbe servire a molto se non cambia la dinamica del ciclo economico. In conclusione l’Europa deve ritrovare in se stessa le energie per far ripartire la propria crescita, abbandonando le utopie della “fantasia al potere” e tornando a coniugare creatività e realismo, come ha sempre fatto nei suoi momenti migliori. Anche i mercati finanziari non aspettano altro.
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