
Terra di nessuno
Per una volta sola, rientrare al Parini
Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Milano, gennaio. Una mattina camminando per Brera mi trovo all’incrocio di via San Marco con Pontaccio, davanti alla piazza della chiesa. Senza pensarci attraverso, poi risalgo lungo via Solferino. Così però allunghi la strada, mi dico. E perché?
Sorrido fra me. Perché da anni non passo accanto al palazzo del mio liceo. Lo evito con cura, lo circumnavigo, per non trovarmi in via Cernaia, davanti alla facciata austera con i grandi portoni di ferro nero, e poi nell’atrio con la solenne scritta incisa sui muri: «Chi sovra l’alta mente il cor sublima/ meglio se stesso e i sacri ingegni estima».
Ma se, per una volta, penso, osassi rientrare al Parini, riaffacciarmi a quel cortile? Non se ne parla, replica dentro di me la parte severa, quella che comanda. Ma per una volta sola?, insisto, mentre in realtà, obbediente, mi allontano da Brera.
Per una volta sola. E allora mi immagino, in giorni come questo, quando la scuola è vuota, di spingere quel portone e risalire le scale, fino all’ultimo piano, dove erano le aule delle terze liceo. Le stesse vecchie piastrelle, i corridoi larghi e luminosi, e dal cortile grida di ragazzi, e il tonfo di un pallone. Nessuno in giro, tutte le porte chiuse. III C, leggo su una porta, e tendendo l’orecchio colgo la voce monotona di una professoressa. Mi faccio forza, spingo sulla maniglia. Dentro, trenta ragazzi nei banchi, quelli nelle prime file attenti, quelli in fondo annoiati. Un tuffo al cuore: li riconosco, ad uno ad uno. Loro non sembrano vedermi.
Eccovi, mi dico, come abbracciandoli tutti, eccovi, siete ancora qui, nell’ora di fisica. Sulla lavagna, astruse formule tracciate col gesso. Dalla finestra il grigiore di gennaio e un piccione che svolazza sfaccendato. Siete ancora qui: Vittoria, con i suoi capelli fulvi e la pelle candida da giovane unna, Sergio, curvo sul banco, serio, gli occhi buoni. Francesca, con quel seno fiorente che ipnotizza gli sguardi dei compagni. Paola, la finta proletaria, la combattente arrabbiata. E, in fondo all’aula, quelli che se ne fregano, che prendono due, che copiano, le canaglie più simpatiche.
Siete tutti qui, penso con uno sbalordimento felice, qui, intatti, con i vostri diciott’anni e tutta la vita davanti. Nell’aula accanto, allora, c’è anche quel ragazzo con gli occhi verdi bellissimi, che pareva non vedermi nemmeno? La professoressa Romanini insiste arcigna, l’indice puntato su una formula incomprensibile alla lavagna; fuori dalla finestra il piccione saltella da un davanzale all’altro, inseguito da sguardi tediati.
In punta di piedi indietreggio e mi chiudo la porta alle spalle, la chiudo piano. Studiavamo “La sera del dì di festa”, in quell’aula: «E fieramente mi si stringe il core, a pensar come tutto al mondo passa, e quasi orma non lascia». E io non capivo, noi non capivamo che Leopardi parlava di noi. A diciott’anni non si capisce. A cinquanta si traversa una strada per non passare troppo vicino a un vecchio palazzo, e ai suoi fantasmi gentili.
Foto Ansa
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