
Terra di nessuno
Ti ho rivisto in tv
Vent’anni fa avevo un amico a cui volevo bene. Veniva a casa nostra a mangiare, quando il primo dei figli stava ancora in seggiolone. Era acuto, ironico, simpatico. Giocava a mostrarsi un po’ bastardo – cosa che, io ne ero certa, non era. E quanto si rideva insieme a lui, e come in quel ridere la realtà mi pareva più buona e accettabile di quanto non la trovassi io, quando ero sola.
Con quell’amico ho poi litigato per delle cose in fondo da poco, ma dicendocene abbastanza da trovare impossibile decentemente tornare indietro, e chiederci scusa. Non lo vedo più da anni. Lui ha fatto carriera, è diventato importante. Talvolta la sera, girando col telecomando da un canale all’altro, lo incrocio. Toh, eccolo, mi dico, e resto ad ascoltare; per poco però, perché senza che io voglia ammetterlo mi duole l’averlo perso, mentre avevo creduto che fosse uno di quei pochi su cui davvero contare. Poi, mi sbalordisce un suo apparente cambiamento: da giovane giocava a sembrare un bastardo, ma adesso, a ascoltarlo, diresti che lo è diventato davvero. E mi domando che cosa possa averlo così cambiato. Il successo? Un tempo ci rideva sopra. I soldi? Non mi sembrava che li amasse tanto. Il potere? Quello, certo, può essere qualcosa che ti inebria, e finisce col controllarti. Oppure, che sia stato un dolore? Ma in realtà non capisco, che cosa possa essere successo al mio amico. Forse poi lui, se avesse letto i pezzi che ho scritto da vent’anni in qua, potrebbe dirmi: ma anche tu sei cambiata, tanto che quasi non ti riconosco. Scherzavamo, ridevamo insieme: mi sembri così seria, oggi. Troppo. Sei invecchiata.
Eppure perché questa sera mi viene l’assurdo desiderio di telefonargli e di dirgli ciao, vieni a cena da noi, domani? Sai, Pietro, quello che stava in seggiolone, ora ha 19 anni, e poi ti devo presentare gli altri due, che tu non hai mai visto. Chissà perché proprio stasera mi prende la cocciuta voglia di ricomporre questo lungo silenzio, e di averlo di nuovo con noi a tavola, e di tirare tardi a contarcela su. Ma capirebbe lui cosa voglio, se lo chiamassi? Non ho il suo numero; e, mi dico, certo una segretaria mi fermerebbe: «Che nome ha detto? Riferisco al dottore e poi eventualmente la faccio richiamare».Via, andiamo, è sciocco, mi dico, irritata con me stessa. Perché mi prende poi, dopo vent’anni, quest’urgenza di ritrovare un amico perduto? La strana voglia di poter dire, quasi con prepotenza, che quell’amicizia non era da poco, e non è finita nel nulla. Che non è un frammento di vita lasciato indietro, un equivoco, o uno sbaglio. Mi era, ci era caro davvero, quel ragazzo, con la sua faccia da soldato di ventura. È perché invecchio, che non sopporto che niente, di ciò che mi è stato caro, vada perduto? Come se ogni cosa, e anche ogni errore, non potesse alla fine che inchinarsi davanti al destino in cui io credo: che è la misericordia di un Dio paziente, e buono.
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