
Mario “Rino” Pagotto, il calciatore del Bologna che ha sconfitto i lager nazisti a suon di gol
Il modo più efficace di vivere la Giornata nazionale della memoria è raccontare la storia di chi è sopravvissuto e ha qualcosa da dire ancora oggi. Perché da Auschwitz, dalla fornace più rovente mai esistita, sono uscite storie di coraggio, di speranza e di umanità che meritano di non essere dimenticate. Come quella di Mario “Rino” Pagotto, narrata nel libro di Giuliano Musi “Pagotto, un calcio anche alla morte” (ed. Minerva, pp. 168), calciatore del Bologna sfuggito ai lager nazisti dopo aver battuto in una partita di calcio la squadra dell’Armata russa.
Rino nasce nel 1911 a Fontanafredda, vicino a Udine, da una famiglia povera di contadini. A duecento metri da casa sua corre Corrado Girardengo e il suo mito è il pugile Primo Carnera. Friulano verace, di robusta costituzione, si trasferisce con la famiglia a Pordenone. Qui lavora come ciabattino, e nel frattempo coltiva la sua passione più grande: il calcio. Dai campi dell’oratorio ai campi della giovanile del Pordenone il passo è breve. E ancor più breve è quello verso il Bologna, dove esordisce contro il Genoa il primo dicembre del ’36. Con tanto di vittoria. Sono gli anni del grande Bologna guidato da Arpad Weisz, ungherese trapiantato in Italia, in grado di guidare il terzino in una delle più grandi stagioni calcistiche del Novecento.
Tutto procede al meglio per Rino. Quello stesso anno è a Parigi, dove disputa la finale del Torneo Internazionale dell’Expo Universale. Il Bologna insegna al Chelsea come si gioca a calcio: 4-1 contro i maestri del calcio inglese. Anche la nazionale l’aspetta. A Roma, l’Italia vince contro la Romania: 2-1. Ma siamo nel 1940, e la guerra diventa molto di più di un incubo. Weisz, a causa delle leggi razziali, è costretto a riparare in Olanda. Invano: viene catturato, deportato e ucciso ad Auschwitz con tutta la famiglia.
Nel 1943 Rino viene arruolato nella brigata alpina, ma il suo compito nell’esercito italiano dura poco. Fino all’armistizio dei fascisti con gli Alleati. I tedeschi lo arrestano l’8 settembre e la sua storia procede con una lunga tradotta verso Hohenstein, quindi a Bialystok in Polonia. Lo aspettano i lavori forzati e la fame: in poco meno di sei mesi perde 30 chili. Intanto, il prigioniero “DA8659” stringe amicizia con altri come lui, che non desiderano che tornare a casa. Uniti dall’amore per l’Italia e per il gioco del calcio. Con l’avanzata dei russi, Pagotto e i suoi amici sono mandati a Odessa. Da lì raggiungono Cernauti, in Ucraina. Il gruppo di amici si è allargato, e adesso sono più di duecento italiani a spostarsi insieme lungo questa peregrinazione. A Cernauti, Pagotto incontra altri calciatori italiani. Insieme mettono in piedi una squadra, il loro campo di allenamento è una spianata polverosa in mezzo alle baracche. I pali delle porte sono segnati dalle giacche a righe dei prigionieri. I galeotti greci, olandesi e belga creano delle proprie rappresentanze, sfidandoli. Ma a vincere sono sempre gli italiani, che diventano presto famosi come “Quelli di Cernauti“.
A Sluzk, dove viene traslocata la squadra, continuano ad allenarsi. Le partite, organizzate ogni settimana, raccolgono tutti i prigionieri attorno al campo, seduti per terra a poca distanza dalla linea del fallo laterale. A Pagotto viene allora in mente un’idea che, da lì a poco, prende forma concreta. Organizza un torneo tra le diverse squadre dei lager, ognuno con la propria selezione di giocatori. Dalle diciotto partite disputate “Quelli di Cernauti” escono imbattuti. Ma la sfida più grande la formazione di Pagotto la deve ancora affrontare. È quella contro la selezione dei migliori giocatori dell’Armata russa. Quella che, a detta dei suoi aguzzini, potrebbe anticipargli il ritorno a casa in caso di vittoria. “Quelli di Cernauti” non si risparmiano e umiliano gli URSS per 6-2. I tedeschi sono di parola e il 18 ottobre 1945 Mario Pagotto può riabbracciare la moglie e i figli. Vivrà fino al 1992: 212 gare con il Bologna, tre scudetti e una presenza in nazionale. Soprattutto, però, una passione che ha sconfitto anche il lager.
twitter: @DanieleCiacci
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