Mark Romanek e la fantascienza del suo “Non lasciarmi”

Di Simone Fortunato
30 Marzo 2011
Mark Romanek, alla sua seconda prova registica dopo One Hour Photo, confeziona un film molto interessante. Non lasciarmi, pellicola fantascientifica priva di effetti speciali, racconta una storia solo apparentemente lontana dal nostro presente

Splendido melodramma gentile e sofferto diretto dal regista di un unico film, l’interessante One Hour Photo, e di parecchi videoclip musicali. Il suo nome è Mark Romanek e vale la pena segnarselo perché è riuscito in un’impresa. Realizzare un film di fantascienza senza effetti di qualsiasi tipo e sorretto soltanto dall’interpretazione di tre giovani attori, Keira Knightley, Andrew Garfield e Carey Mulligan, uno più bravo dell’altro, e soprattutto prendendo dalla fantascienza il vero cuore, nemmeno troppo nascosto: le domande di senso. Da questo punto di vista, il film, sospeso in un’atmosfera indefinita e segnato da colori autunnali, si configura come un grande film sulla domanda fondamentale dell’essere umano. Chi sono io? Qual è il mio destino? A che cosa servo? Perché vivere e morire? Sono le domande che i tre protagonisti si pongono, sempre e continuamente. Se le pongono nell’infanzia – il prologo del film – vissuta all’interno delle mura apparentemente calde e accoglienti del college di Hailsham gestito da una preside (Charlotte Rampling) materna e severa nei confronti di questi orfani di padre e di madre e dal destino segnato.

 

Se le pongono nel rapporto tra di loro e nelle contraddizioni tipiche dell’adolescenza, quando l’amicizia e l’amore si confondono, quando bisogna convivere con i sentimenti più diversi e quando le pulsioni sessuali rischiano di prendere il sopravvento. Soli di fronte a un mondo che – eccezion fatta per un’insegnante del college – non si accorge nemmeno della loro esistenza, i tre ragazzi cercano, come riescono, di farsi compagnia nell’affronto di un dolore che pare certo e davanti a un destino che pare prestabilito sin dai primi momenti della loro vita. Eppure i tre sognano che l’amore e l’amicizia tra loro duri per sempre o sperano, almeno, di ottenere dal Potere una deroga, qualche anno in più, prima del distacco inevitabile. Sperano contro ogni speranza. Sono almeno due i livelli con i quali accedere al film: il primo è eminentemente cinematografico.

 

Non lasciarmi porta avanti lo stesso discorso di Gattaca, capolavoro della fantascienza delle domande degli anni 90, e Romanek, attraverso uno stile sobrio, privo di fronzoli, rimane ancorato all’essenziale. Più del non senso di un mondo in cui il progresso tecnologico ha ridotto l’uomo a oggetto di consumo, conta il cuore di questi ragazzi che amano, sperano, vivono e soffrono di fronte alla contraddizione della vita che appartiene a tutti, per cui si ama per sempre, nonostante l’amore sia, per sua natura terrena, finito. Scrive ne Il piccolo principe Saint-Exupéry: “La prova che il piccolo principe è esistito sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora è la prova che esiste”. La prova che i tre ragazzi esistono e sono uomini è che si amano e desiderano farlo per sempre. In questo senso, Romanek, da un punto di vista stilistico, riprende con grande rispetto il cinema di Kubrick, il cui 2001, oltre a essere il capolavoro definitivo del cinema delle domande fondamentali della vita, è anche uno dei film di culto del regista di One Hour Photo. Stesso approccio scientifico, stessa apparente freddezza rispetto alla sofferenza dei protagonisti che sembrano lasciati soli a se stessi. Eppure, a ben vedere, come nel finale di Orizzonti di gloria, o in tanti momenti di Barry Lyndon e dello stesso 2001, Kubrick piange sommessamente e in silenzio sulle tante crudeltà che il Destino infligge ai suo personaggi, così fa anche Romanek, nelle sequenze in ospedale con protagonisti i donatori e nel finale, carico di attesa davanti a un orizzonte assai evocativo.

 

La seconda chiave di lettura è quella metaforica e simbolica. Il film, solo a una prima frettolosa analisi, parla di altro da noi, di un altro luogo e di un altro tempo. In realtà Non lasciarmi parla del qui ed ora. Lo dicono i toni fiabeschi e anche kafkiani del prologo; lo dice la mancanza praticamente assoluta di riferimenti spazio-temporali, ma lo dice soprattutto l’idea di fondo del film. E cioè che tutti siamo “donatori”. Tutti cioè abbiamo un tempo prestabilito, fissato e tutti viviamo l’esperienza drammaticissima del distacco dalle cose e, soprattutto, dalle persone. Viviamo tutti con una domanda grande nel cuore – che questo amore, questa moglie, questi figli, questi amici – siano per sempre, perché è la vita a suggerircelo in continuazione, eppure sappiamo che tutto, almeno nell’esperienza terrena della vita, finirà e tutto ci verrà tolto con dolore. E allora non ci rimarranno che due strade. Chiuderci in un cinismo e in un disincanto triste e grigio; o sperare che tutto questo Bene sperimentato e a volte questa felicità, non sia per nulla, non scompaia per sempre ma che, misteriosamente, ci possa essere restituita. E questa volta per sempre. Sperare come questi ragazzi, fragili e soli, poverissimi di tutto (vestiti, case, ricchezze) ma ricchi dell’essenziale, una domanda che non muore mai, alla quale rimangono attaccati, in attesa di una risposta che forse non arriverà mai.
 

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