Maroni con la macroregione farà l’arcitaliano lumbard. Intervista al governatore

Di Luigi Amicone
09 Marzo 2013
Nessun settarismo. Assetto istituzionale. Vera apertura agli alleati (e forse qualcosa di più?). Da via Bellerio s’avanza uno strano leghista. Tricolore ed europeista

Pronti, via. «E ragazzi, non voglio lazzaroni. Altrimenti la porta è quella». Venerdì 1 marzo, nella sede leghista di via Bellerio, Milano, del venerdì di magro non rimane niente. Festa grande nella sala riunioni. Seguirà, domenica 3, l’happening sotto lo skyline di corso Como. Con tanto di palco rockettaro in piazza XXV Aprile e bandiere crociate in rosso mescolate alle azzurre Pdl. Ma intanto nella roccaforte padana, venerdì 1 erano tutti in grisaglia, giacca e cravatta col verde ormai meticciato nei variegati colori del nuovo partito sognato dal neo governatore della Lombardia. Non più ideologico-etnicista. Da riti del Po e barbe celtiche. La prima avvisaglia della compagine interclassista, modello Csu bavarese, si coglie qui. Tra quella che sembra essere una compagnia convenuta per festeggiare un tale col pulloverino a girocollo. Un tale che innalza il calice allo spritz e taglia la torta col ritratto del vincitore in glassa. Non si sposa nessuno. C’è solo il raduno degli eletti. E quando Bobo Maroni impugna il microfono come una rivoltella spianata davanti all’uditorio dei promossi nelle liste regionali, Camera e Senato, scatta l’ovazione liberatoria.

Quanto è lontana Milano dal teatro dello psicodramma nazionale in cui si tenta di trovare un governo inseguendo il famoso comico e il suo guru Casaleggio. Ma se a Roma devono fare i conti con una marea di stelline che puntano al “cambiamento del mondo”, chi avrebbe mai detto che, proprio sul crinale storico-elettorale più basso per la Lega, il suo segretario federale si prendesse la Lombardia e, da Torino a Trieste, unisse sotto lo scettro verde un territorio che vale il 50 per cento del Pil nazionale? Chi poteva immaginare che 17 anni di governo di centrodestra potessero sopravvivere, e bene, mantenendo alla debita distanza di quasi cinque punti percentuali centrosinistra e grillini (che in Lombardia hanno conseguito uno dei loro risultati peggiori, poco più del 13 per cento), dopo una campagna elettorale «sotto le bombe», come dice Formigoni, iniziata nel 2011 con il tintinnar di manette sulla sanità, proseguita nel 2012 con raffiche di avvisi di garanzia che hanno coperto d’infamia l’intera giunta regionale e messo sul conto del centrodestra ogni nefandezza? Chi poteva pensare che lo scontro fratricida e la conseguente caduta della giunta Formigoni per mano di Maroni si risolvesse con il rinsaldarsi di un’alleanza ormai quasi ventennale e vincente?

Spiega a Tempi il vincitore: «Ho sempre saputo distinguere le vittorie elettorali da quelle politiche. Pirro e Stalingrado. Nel 1996 abbiamo fatto il pieno di voti ma siamo risultati politicamente irrilevanti. Viceversa, nel 2001, siamo andati al governo con Berlusconi nel punto più basso della nostra parabola elettorale. Quindi, meglio vittorie politiche che i consensi che poi non sai come utilizzare. Pensa a Roma. Un casino». E come non illuminarsi davanti all’onore delle armi reso dal Corriere della Sera? Maroni aveva parlato di “terrorismo” a proposito delle illazioni riservategli dal quotidiano di via Solferino negli articoli sul caso Finmeccanica. Non solo. La direzione aveva mobilitato ottime persone per paventare, in caso di vittoria dell’ex ministro dell’Interno, l’incubo di una «Repubblica di Salò» (Piero Bassetti) e della «secessione dall’Italia e dall’Europa» (Antonio Polito). «Nessun rancore», se la ride adesso il neo governatore. «Anzi, sono felicemente sorpreso che la mia elezione sia stata festeggiata con un titolo in prima, a tutta pagina. Mi ricorda la fine della guerra in Iraq. Da incorniciare. Grazie, direttore».

Dal fondo del salone di via Bellerio un neoletto interrompe i saluti del vincitore della guerra. «Ehi, calma presidente, non puoi metterci subito al lavoro. Ci vogliono ancora dieci-venti giorni prima della tua ufficializzazione. Poi le Corti d’appello dovranno proclamare a uno a uno gli 80 consiglieri e ne occorreranno altri dieci, di giorni, per la formazione della giunta. Aggiungi un’altra settimana per la prima seduta del Consiglio regionale e, se va bene, siamo in sella dopo Pasqua. Mi spiace, così dice la legge…». Maroni non lo lascia finire. «La legge? Vuol dire che cambieremo la legge». Risate. «D’accordo – riprende il capo – noi siamo rispettosi della legalità. Però siamo anche di rito ambrosiano. Perciò il giorno dopo la mia proclamazione i lombardi conosceranno tutti i nomi degli assessori. Erano 16 con Formigoni, 12 in questi mesi propedeutici al voto. Preferirei una via di mezzo. Meno di 16, più di 12. Deciderò con i nostri alleati».

Una nuova offerta politica
A proposito di alleati. Maroni ha un progetto. E un metodo per conseguirlo. «L’ho annunciato in campagna elettorale e il successo della Lista Maroni mi conferma fortemente in quel mio annuncio. Basta leggere i dati. La Lega ha preso alle regionali gli stessi voti delle politiche. Il 13 per cento. Significa che il 10 per cento della Lista Maroni Presidente viene da chi alle politiche non ha votato Lega. Questo dato, letto insieme al risultato della Lega e del Pdl che ha sottoscritto interamente il mio programma, mi spinge a dare immediata attuazione a un governo che da una parte supporti il piano istituzionale della macroregione, dall’altra favorisca la nascita di una nuova offerta politica. Sia chiaro, io non voglio lanciare un’Opa della Lega sul Pdl. Voglio un contenitore che tenga insieme Lega, Pdl, grillini di ritorno, elettori che non sono andati a votare perché nauseati dalla cattiva politica. Voglio che io, Cota, Zaia e Tondo, attuali governatori del Nord, costituiamo un livello di rappresentanza di interessi comuni. E che, contemporaneamente, questa formidabile comunità economica e politica si doti di un partito rappresentativo delle istanze territoriali. Per realizzare questi due obbiettivi mi sono dato due anni. Roma viene dopo». In tutto questo la Lombardia che ruolo ha? «La Lombardia è la cerniera strategica di questo progetto di nuova Italia e di nuova Europa. Noi non siamo secessionisti e non siamo antieuropei. Siamo per l’Italia e l’Europa delle macroregioni. Per questo ho bisogno di uomini e donne onesti e che sappiano unire piuttosto che dividere». Naturalmente la politica è fatta anche di divisioni. Sull’Expo, per esempio. Guerricciola a cui Maroni non pare intenzionato a tener bordone. «Per me l’importante è andare avanti e non danneggiare un evento cruciale per il sistema lombardo». E Roberto Formigoni, governatore uscente e neosenatore che il sindaco di Milano Giuliano Pisapia (leggi: comitato elettorale dello sconfitto Umberto Ambrosoli) vedrebbe bene disarcionato da commissario dell’Expo? «Come ho già detto, a meno che il Consiglio dei ministri decida altrimenti, a me sta bene Formigoni commissario».

Abbandono di ogni settarismo. Massima attenzione nella scelta della squadra di governo. E ascolto serio, non tatticista, degli alleati. Così ragiona il nuovo leader. I nomi dei suoi assessori? «Ho letto molti toto-nomine sui giornali. La verità è che gli esami dei candidati andranno avanti fino al 10 marzo. Di sicuro saranno in squadra il canoista olimpionico Antonio Rossi, assessore allo sport; e Massimo Garavaglia, al quale ho chiesto di dimettersi da senatore e venire a darci una mano come assessore al bilancio». Altri nomi? «Il Pdl mi indicherà i suoi. Salvini quelli della Lega». Al consiglio federale dell’11 marzo Maroni presenterà le dimissioni da segretario della Lega. «Perché, come ho promesso, voglio occuparmi della Lombardia al 100 per cento».

Dopo di che, come si fa a coniugare leadership nel partito e governo regionale? Maroni oppone il riserbo. «Deciderà il consiglio federale». Ma nei corridoi di via Bellerio tutti ti assicurano che le dimissioni verranno respinte e che il governatore continuerà a guidare il partito per tramite dei “proconsoli” Matteo Salvini in Lombardia e Flavio Tosi in Veneto.

Il peso della lista civica
Intanto, volti nuovi si affacciano sulla scena politica lombarda. Non a caso provenienti dal bacino della Lista Maroni. Che per lo scorno delle attese dell’establishment del partito non farà gruppo unico con la Lega nel nuovo Consiglio, bensì gruppo a sé. «E per due semplicissime ragioni», spiega il neo presidente. «Primo, perché la lista civica non è costituita da leghisti. Secondo, perché i suoi eletti rappresentano il nucleo di quel progetto politico che ho in testa». Stefano Candiani, neo senatore e granitico coordinatore regionale della lista presidenziale, ne è un esempio. Imprenditore, sindaco di Tradate da dieci anni, è stato uno dei protagonisti dell’impresa lista civica. Che avendo raccolto quasi l’11 per cento di consensi non solo è risultata decisiva per la vittoria del segretario. Ma ha letteralmente salvato il centrodestra (con una Lega ferma sotto il 13 per cento e il Pdl sotto il 17, entrambi con voti praticamente dimezzati) da una disfatta di portata storica (visto che mai la sinistra ha conquistato alle urne la Lombardia). Ecco cosa non ha capito il consueto saccente editoriale domenicale di Eugenio Scalfari, autoincensatosi buon profeta in tutto (compreso del “botto Grillo”) ma non del risultato lombardo che ha «soprattutto sorpreso» il Fondatore. In effetti, anche il pratico Candiani ha un aneddoto sorprendente: «Ma se ti dico che hanno chiamato uno degli eletti e “ascolta, domani passa in sede per le questioni tecniche”, e quello risponde “ma te se matt, mi duman gu de ’ndà a laurà (“sei matto, domani devo andare a lavorare”, ndr), mi credi? Capisci che la differenza l’ha fatta Maroni. Ecco la novità. Non più le alchimie politiche. Ma le persone». Stesse riflessioni vengono da leghisti doc come il primo cittadino di Varese Attilio Fontana o il giovane Andrea Robbiani, sindaco di Merate. «Prima si votava il marchio. Adesso l’uomo». «Ha fatto bene il ministro dell’Interno, farà bene anche il presidente».

Insomma, c’è aria nuova in casa padana. Prova ne sia che anche un politico navigato come Roberto Calderoli, sopraggiunto in via Bellerio per istruire i neo consiglieri, capisce l’antifona («Noi, rappresentanti istituzionali di serie B eletti a Roma…») e ripiega in simpatica ritirata («Vabbè, scusate, la riunione è aggiornata»).

@LuigiAmicone

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