
Maturità 2014. Dino Buzzati. «È davvero giunta la grande occasione, la definitiva battaglia che può pagare tutta la vita»
Anche quest’anno tempi.it dedica uno spazio speciale alla preparazione dell’esame di maturità. Lo trovate qui e sarà in continuo aggiornamento.
Nativo di Belluno, Dino Buzzati (1906-1972) è giornalista, romanziere (Bàrnabo delle montagne, Il deserto dei Tartari, Un amore), novelliere (celebri le raccolte I sette messaggeri, La boutique del mistero, Sessanta racconti). La sua vasta produzione è una chiara testimonianza di quell’attesa insaziabile che è inestirpabile caratteristica dell’umano. Un grande artista sa interpretare la propria epoca e sa capirla, perché comprende meglio di altri le chiavi di accesso alla cultura coeva. Così, la fortezza Bastiani de Il deserto dei Tartari è divenuta una delle immagini che descrivono meglio la condizione esistenziale dell’uomo del Novecento. L’immagine è, forse, meno nota, ma non certo meno significativa, delle rappresentazioni di altri artisti contemporanei, come la ragnatela o il carcere della forma (Pirandello), l’involucro ingombrante e ripugnante dello scarafaggio (Kafka), l’urlo che si propaga senza essere udito da nessuno (Munch).
Non è «imponente la Fortezza Bastiani, con le sue basse mura, né in alcun modo bella, né pittoresca di torri e di bastioni, assolutamente nulla» che consoli «quella nudità», che ricordi «le dolci cose della vita». All’ufficiale Giovanni Drogo che vi giunge pare «uno di quei mondi sconosciuti a cui mai aveva pensato di poter appartenere, […] un mondo ben più impegnativo, senza alcuno splendore» se non «quello delle sue geometriche leggi». La fortezza si affaccia su un deserto da cui, si vocifera, arriveranno un giorno i Tartari. L’attesa dell’evento diventa il motivo costitutivo dell’esistenza, così come il fulcro assiale del romanzo, possibilità di riscatto dal grigiore e dalla monotonia dell’esistenza, occasione per l’affermazione del proprio valore. Drogo attende l’arrivo dei Tartari, il grande evento, così come nell’opera teatrale di S. Beckett Aspettando Godot Estragon e Wladimir aspettano l’arrivo del fantomatico Godot, non fanno nulla tutto il giorno se non attendere, in una situazione di stallo che rappresenta l’uomo contemporaneo. L’ardore del pellegrino medioevale, la gratuità profusa nella costruzione di grandi cattedrali sono state sostituite da una triste inerzia, deprivata della sua energia vitale e del suo impeto conoscitivo. Ecco perché quella realtà che appariva come luogo di avventura, cioè di accadimento di qualcosa di inaspettato e di esterno, di soprannaturale, quella realtà che si spalancava ad una dimensione più grande rispetto a quella delle mura visibili, del bosco attraversabile, nella contemporaneità si fa sempre più stretta.
Nelle ultime pagine del romanzo Drogo viene cacciato dalla Fortezza, perché malato. A nulla servono le repliche al superiore: «Tu lo sai che qui alla Fortezza… si è rimasti tutti per la speranza, […] se non fosse stato per questa possibilità». L’ipotesi che possa accadere il grande evento aspettato da una vita non ha mai abbandonato il cuore dell’ufficiale Drogo. Ora, purtroppo, deve lasciare quell’avamposto e tornare indietro. Si chiede allora se la vita si sia «risolta in una specie di scherzo». «Nel sommo del cielo […] tre o quattro stelle» brillano ancora. Il desiderio di Drogo non si è assopito. Anzi, proprio ora, forse è «davvero giunta la grande occasione, la definitiva battaglia che» può «pagare tutta la vita». Tra sé e sé pensa: «Coraggio, Drogo, questa è l’ultima carta, va incontro alla morte da soldato e che la tua esistenza sbagliata almeno finisca bene […]. Varca con piede fermo il limite dell’ombra, diritto come a una parata, e sorridi anche, se ci riesci. Dopo tutto la coscienza non è troppo pesante e Dio saprà perdonare. Questo, Giovanni diceva a se stesso – una specie di preghiera – sentendo stringersi attorno a sé il cerchio conclusivo della vita». L’ufficiale sente una forza che mai avrebbe sperato, percepisce «di essere assolutamente tranquillo, ansioso quasi di ricominciare la prova». La morte perde «l’agghiacciante volto, mutandosi in cosa semplice e conforme a natura». Proprio ora, in punto di morte, sembra palesarsi per il protagonista l’opportunità del riscatto. Quel Dio che «saprà perdonare» appare la faccia del destino buono che finalmente Drogo potrà vedere. Tutta la sua vita assume ora un aspetto nuovo. «L’affannarsi sugli spalti della Fortezza», le «pene per la carriera», gli «anni lunghi di attesa», l’invidia provata nei confronti di colleghi hanno un valore marginale, ora che si apre «il passo alla luce» e si sente «libero e felice». Drogo conclude la sua vita dando «uno sguardo fuori dalla finestra […] per l’ultima sua pozione di stelle» e «sorride».
La faccia del destino è la presenza quasi ossessiva che Buzzati insegue e cerca di rappresentare in tante sue opere. L’immagine della morte è incombente e oppressiva nel racconto «Il mantello», dove un figlio torna dalla guerra per far visita ai propri cari in compagnia di un amico che rimane fuori di casa, così «misericordioso e paziente da accompagnarlo […] alla vecchia casa (prima di portarselo via per sempre), affinché potesse salutare la madre».
Altrove Buzzati descrive la condizione umana attraverso la dimensione del viaggio. Pensiamo al celebre racconto «I sette messaggeri». Il protagonista parte per esplorare il regno del padre, convinto che giungerà presto ai confini. Porta con sé sette persone, le più fidate, che utilizzerà come messaggeri per rimanere in contatto con il regno. Passano le settimane, i mesi, gli anni, ma cresce in lui il sospetto che non vi siano frontiere. Sta per inviare l’ultimo messaggero che lui non rivedrà più. La conclusione, tutta contrassegnata dalla speranza, ricorda il celebre «Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez» di Leopardi. Scrive il protagonista: «Vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso l’improbabile meta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l’aria rechi presagi che non so dire. Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti». Questo viaggio instancabile ricorda quello dell’Ulisse dantesco, quello del Cristoforo Colombo leopardiano. Non è una fatica inutile, come quella di cui, invece, scrive A. Camus nel saggio Il mito di Sisifo. Non dominano lo scetticismo e il cinismo, ma quella luce, quella speranza che sembrano non venire mai meno.
Così accade anche nel racconto «Le mura di Anagoor». La città non è segnata su alcuna carta geografica, tanto che il protagonista pensa che sia una delle tante leggende. Seguendo una guida indigena, giunge, però, di fronte alle mura, ove sono accampate tante persone, in attesa che vengano aperte le porte. «Battono» dice la guida «affinché quelli di Anagoor, udendo i colpi, vengano ad aprire. È infatti generale persuasione che se non si bussa nessuno mai aprirà». Bisogna domandare e mendicare nella vita, bisogna cercare per trovare una risposta. Ci sono i segni che la città sia abitata. Proprio lì davanti agli occhi del visitatore si levano dei fumi che «promettono ai riguardanti una felicità nuova». Lui, però, diffida e pensa che potrebbero non essere causati da uomini. La guida Magalon lo rassicura del fatto che le porte un giorno si sono aperte e vi è entrato un pellegrino. Il visitatore è ormai stanco di aspettare. Ha atteso per ventiquattro anni e ora ha deciso di tornare a casa. Chi è attendato lo rimprovera con queste parole: «Eh, amico, quanta furia! […] Un minimo di pazienza, diamine! Tu pretendi troppo dalla vita».
La natura umana è strutturata come desiderio, come attesa di un compimento delle esigenze di felicità, di verità, di giustizia del proprio cuore. Quale intensità avrebbero le nostre giornate se vissute come attesa! In questa attesa trepidante risiede la vera «Grandezza dell’uomo», come recita il titolo di un bellissimo racconto di Buzzati. Un mercante che vive per le ricchezze, uno scienziato tutto dedito al sapere, un guerriero di forza ineguagliabile, un uomo che adora Dio sono messi a confronto. «La grandezza dell’uomo» emerge alla fine della storia «sta nell’umiltà della carne e nell’elevazione dello spirito». Il guerriero deve «ammettere che non» ha «mai visto un essere umano più sereno, contento e probabilmente felice» di quell’uomo che con semplicità e umiltà vive la dipendenza da Dio e Gli rende gloria.
Invito alla lettura
Il deserto dei tartari;
I sette messaggeri;
La boutique del mistero;
Sessanta racconti.
Proposta di analisi di testo
Dino Buzzati, “I sette messaggeri”
Partito ad esplorare il regno di mio padre, di giorno in giorno vado allontanandomi dalla città e le notizie che mi giungono si fanno sempre più rare.
Ho cominciato il viaggio poco più che trentenne e più di otto anni sono passati, esattamente otto anni, sei mesi e quindici giorni di ininterrotto cammino. Credevo, alla partenza, che in poche settimane avrei facilmente raggiunto i confini del regno, invece ho continuato ad incontrare sempre nuove genti e paesi; e dovunque uomini che parlavano la mia stessa lingua, che dicevano di essere sudditi miei.
Penso talora che la bussola del mio geografo sia impazzita e che, credendo di procedere sempre verso il meridione, noi in realtà siamo forse andati girando su noi stessi, senza mai aumentare la distanza che ci separa dalla capitale; questo potrebbe spiegare il motivo per cui ancora non siamo giunti all’estrema frontiera.
Ma più sovente mi tormenta il dubbio che questo confine non esista, che il regno si estenda senza limite alcuno e che, per quanto io avanzi, mai potrò arrivare alla fine.
Mi misi in viaggio che avevo già più di trent’anni, troppo tardi forse. Gli amici, i familiari stessi, deridevano il mio progetto come inutile dispendio degli anni migliori della vita. Pochi in realtà dei miei fedeli acconsentirono a partire.
Sebbene spensierato ben più di quanto sia ora! mi preoccupai di poter comunicare, durante il viaggio, con i miei cari, e fra i cavalieri della scorta scelsi i sette migliori, che mi servissero da messaggeri.
Credevo, inconsapevole, che averne sette fosse addirittura un’esagerazione. Con l’andar del tempo mi accorsi al contrario che erano ridicolmente pochi; e sì che nessuno di essi è mai caduto malato, né è incappato nei briganti, né ha sfiancato le cavalcature. Tutti e sette mi hanno servito con una tenacia e una devozione che difficilmente riuscirò mai a ricompensare.
Per distinguerli facilmente imposi loro nomi con le iniziali alfabeticamente progressive: Alessandro, Bartolomeo, Caio, Domenico, Ettore, Federico, Gregorio.
Non uso alla lontananza dalla mia casa, vi spedii il primo, Alessandro, fin dalla sera del mio secondo giorno di viaggio, quando avevamo percorso già un’ottantina di leghe. La sera dopo, per assicurarmi la continuità delle comunicazioni, inviai il secondo, poi il terzo, poi il quarto, consecutivamente, fino all’ottava sera di viaggio, in cui partì Gregorio. Il primo non era ancora tornato.
Ci raggiunse la decima sera, mentre stavamo disponendo il campo per la notte, in una valle disabitata. Seppi da Alessandro che la sua rapidità era stata inferiore al previsto; avevo pensato che, procedendo isolato, in sella a un ottimo destriero, egli potesse percorrere, nel medesimo tempo, una distanza due volte la nostra; invece aveva potuto solamente una volta e mezza; in una giornata, mentre noi avanzavamo di quaranta leghe, lui ne divorava sessanta, ma non più.
Così fu degli altri. Bartolomeo, partito per la città alla terza sera di viaggio, ci raggiunse alla quindicesima; Caio, partito alla quarta, alla ventesima solo fu di ritorno. Ben presto constatai che bastava moltiplicare per cinque i giorni fin lì impiegati per sapere quando il messaggero ci avrebbe ripresi.
Allontanandoci sempre più dalla capitale, l’itinerario dei messi si faceva ogni volta più lungo. Dopo cinquanta giorni di cammino, l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri cominciò a spaziarsi sensibilmente; mentre prima me ne vedevo arrivare al campo uno ogni cinque giorni, questo intervallo divenne di venticinque; la voce della mia città diveniva in tal modo sempre più fioca; intere settimane passavano senza che io ne avessi alcuna notizia.
Trascorsi che furono sei mesi già avevamo varcato i monti Fasani l’intervallo fra un arrivo e l’altro dei messaggeri aumentò a ben quattro mesi. Essi mi recavano oramai notizie lontane; le buste mi giungevano gualcite, talora con macchie di umido per le notti trascorse all’addiaccio da chi me le portava.
Procedemmo ancora. Invano cercavo di persuadermi che le nuvole trascorrenti sopra di me fossero uguali a quelle della mia fanciulleza, che il cielo della città lontana non fosse diverso dalla cupola azzurra che mi sovrastava, che l’aria fosse la stessa, uguale il soffio del vento, identiche le voci degli uccelli. Le nuvole, il cielo, l’aria, i venti, gli uccelli, mi apparivano in verità cose nuove e diverse; e io mi sentivo straniero.
Avanti, avanti! Vagabondi incontrati per le pianure mi dicevano che i confini non erano lontani. Io incitavo i miei uomini a non posare, spegnevo gli accenti scoraggiati che si facevano sulle loro labbra. Erano già passati quattro anni dalla mia partenza; che lunga fatica. La capitale, la mia casa, mio padre, si erano fatti stranamente remoti, quasi non ci credevo. Ben venti mesi di silenzio e di solitudine intercorrevano ora fra le successive comparse dei messaggeri. Mi portavano curiose lettere ingiallite dal tempo, e in esse trovavo nomi dimenticati, modi di dire a me insoliti, sentimenti che non riuscivo a capire. Il mattino successivo, dopo una sola notte di riposo, mentre noi ci rimettevamo in cammino, il messo partiva nella direzione opposta, recando alla città le lettere che da parecchio tempo io avevo apprestate.
Ma otto anni e mezzo sono trascorsi. Stasera cenavo da solo nella mia tenda quando è entrato Domenico, che riusciva ancora a sorridere benché stravolto dalla fatica. Da quasi sette anni non lo rivedevo. Per tutto questo periodo lunghissimo egli non aveva fatto che correre, attraverso praterie, boschi e deserti, cambiando chissà quante volte cavalcatura, per portarmi quel pacco di buste che finora non ho avuto voglia di aprire. Egli è già andato a dormire e ripartirà domani stesso all’alba.
Ripartirà per l’ultima volta. Sul taccuino ho calcolato che, se tutto andrà bene, io continuando il cammino come ho fatto finora e lui il suo, non potrò rivedere Domenico che fra trentaquattro anni. Io allora ne avrò settantadue. Ma comincio a sentirmi stanco ed è probabile che la morte mi coglierà prima. Così non lo potrò mai più rivedere.
Fra trentaquattro anni (prima anzi, molto prima) Domenico scorgerà inaspettatamente i fuochi del mio accampamento e si domanderà perché mai nel frattempo, io abbia fatto così poco cammino. Come stasera. iÌ buon messaggero entrerà nella mia tenda con le lettere ingiallite dagli anni, cariche di assurde notizie di un tempo già sepolto; ma si fermerà sulla soglia, vedendomi immobile disteso sul giaciglio, due soldati ai fianchi con le torce, morto. Eppure, va, Domenico, e non dirmi che sono crudele! Porta, il mio ultimo saluto alla città dove io sono nato. Tu sei il superstite legame con il mondo che un tempo fu anche mio. I più recenti messaggi mi hanno fatto sapere che molte cose sono cambiate, che mio padre è morto che la Corona è passata a mio fratello maggiore, che mi considerano perduto, che hanno costruito alti palazzi di pietra là dove prima erano le querce sotto cui andavo solitamente a giocare. Ma è pur sempre la mia vecchia patria.
Tu sei l’ultimo legame con loro, Domenico. Il quinto messaggero, Ettore, che mi raggiungerà, Dio volendo, fra un anno e otto mesi, non potrà ripartire perché non farebbe più in tempo a tornare. Dopo di te il silenzio, o Domenico, a meno che finalmente io non trovi i sospirati confini. Ma quanto più procedo, più vado convincendomi che non esiste frontiera.
Non esiste, io sospetto, frontiera, almeno nel senso che noi siamo abituati a pensare. Non ci sono muraglie di separazione, né valli divisorie, né montagne che chiudano il passo. Probabilmente varcherò il limite senza accorgermene neppure, e continuerò ad andare avanti, ignaro.
Per questo io intendo che Ettore e gli altri messi dopo di lui, quando mi avranno nuovamente raggiunto, non riprendano più la via della capitale ma partano innanzi a precedermi, affinché io possa sapere in antecedenza ciò che mi attende.
Un’ansia inconsueta da qualche tempo si accende in me alla sera, e non è più rimpianto delle gioie lasciate, come accadeva nei primi tempi del viaggio; piuttosto è l’impazienza di conoscere le terre ignote a cui mi dirigo.
Vado notando e non l’ho confidato finora a nessuno vado notando come di giorno in giorno, man mano che avanzo verso l’improbabile mèta, nel cielo irraggi una luce insolita quale mai mi è apparsa, neppure nei sogni; e come le piante, i monti, i fiumi che attraversiamo, sembrino fatti di una essenza diversa da quella nostrana e l’aria rechi presagi che non so dire.
Una speranza nuova mi trarrà domattina ancora più avanti, verso quelle montagne inesplorate che le ombre della notte stanno occultando. Ancora una volta io leverò il campo, mentre Domenico scomparirà all’orizzonte dalla parte opposta, per recare alla città lontanissima l’inutile mio messaggio.
Comprensione complessiva
1) Riassumi il racconto in dieci righe.
Analisi di testo
2) Il racconto ha un profondo significato simbolico. Cerca di offrire la tua interpretazione personale.
3) Chi è il narratore? Che cosa sappiamo di lui? Qual è la speranza che lo anima alla fine della storia? Ti sembra positivo il finale?
Inquadramento generale e approfondimenti
4) In tante opere di Buzzati emerge la dimensione dell’attesa del compimento e della ricerca della verità e dell’assoluto. Scegline alcune per approfondire l’argomento.
5) Delinea un percorso sul racconto del Novecento scegliendo gli autori per te più significativi.
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