
Meglio le tribù
Ho già scritto altrove sull’argomento. E ci torno su. Perché è da scemi non vedere cosa sta succedendo. Ci vuole più tribù, e meno famiglia. Oggi la retorica rischia di uccidere la famiglia. La retorica degli anti-famiglia, e quella dei familisti. Intendo dire che la maggior parte delle volte si parla e straparla di famiglia (pro o contro) avendo in mente un’idea di famiglia terribile. Che è quella propagata con scientifica determinazione da miliardi di spot, e di film e di slogan. La famiglia come monade. Come microcosmo perfetto. Come piccola cellula isolata e che sa garantire serenità e pace. La pace che a volte è guardare la televisione in santa pace. Ma non è così. Sotto la retorica, occorre mettere in risalto la tribù a cui si appartiene, il popolo in cui vive. Invece si esalta, si dipinge coi pastelli la famiglia. Che anche se vien giù il mondo (come nell’ultimo film di Spielberg) lei resta su. La famiglia, non importa con quali variazioni rese necessarie dai tempi: quella dello spot con il padre acquisito, o quella del laboratorio con la madre-nonna. Ma sempre lei, monade. E io invece dico: meno famiglia, più tribù. Ovvero, la famiglia esiste, resiste e ha senso, solo in quanto inserita in una tribù. Una volta poteva essere la tribù della famiglia nei suoi diversi rami, o il quartiere. O la parrocchia. Insomma, si faceva famiglia dentro a un contesto che la sorreggeva, ne richiamava lo scopo che non era solo di “consolazione” ma di generazione di un popolo. La famiglia “per bene”, come realizzazione o consolazione, è un’idea borghese tremenda. E farisaica. E dunque non tiene, va in crisi ai soffi del più banale sentimentalismo. E scoppia. Come ogni cosa gonfiata troppo, e a rischio. Più tribù, significa appartenenza della casa a una realtà più grande, non esterna, non da veranda. Significa esser figli per esser padri.
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