
Mijatovic andrà alla guerra?
Calciatori, vil razza dannata, calci, sputi e colpi di testa, come diceva il compagno Sollier, pugno chiuso in un’altra epoca. Calciatori che sanno solo articolare: “Ringrazio il mister, il massaggiatore, i compagni”. Calciatori in fuga dalla sintassi su un congiuntivo traballante. Calciatori viziati, incapaci di muoversi nella vita di tutti i giorni, quella che tocca a noi: conti, piccoli tamponamenti, improbabili assemblee di condominio, miserie quotidiane. I calciatori sono anche tutto questo, ma non solo. Per esempio, in questi giorni di follia, bisognerebbe ascoltarli. Tra i tanti, bisognerebbe seguire quello che dicono i calciatori (ma più in generale anche gli atleti) serbi. Le loro nazionali sono sempre state tra le più forti al mondo; lo sport, in quel paese, ha sempre conquistato medaglie soprattutto con le squadre. Sono duri, perfino sgradevoli, dal nostro punto di vista di occidentali parolai e politicamente corretti. Ha detto Predrag Mijatovic, attaccante del Real Madrid (quello che ha battuto la Juve nella finale di Champion League ’98): “Gli albanesi nel Kosovo sono arrivati trent’anni fa, e sono diventati la maggioranza perché hanno 15 figli a testa. Però la terra è nostra e non la molliamo, se per difenderla ci sarà bisogno della guerra, la faremo”. Un pugno nello stomaco. Questa rubrica non può spiegare chi ha ragione, chi ha torto, né tantomeno rispondere alla domanda epocale: morire per il Kosovo? Vuole solo invitare a riflettere sulle parole di un calciatore jugoslavo strapagato, ma non banale. Saranno brutti, sporchi e cattivi, ma chi pensa di risolvere tutto con qualche migliaio di missili, non li conosce. Questo insegna lo sport, una specie di guerra, con altri mezzi.
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