
Muccino contro la spietata Hollywood. L’industria che ancora ci invidia Fellini e Leone
Un fiasco così Gabriele Muccino non se l’aspettava. Gli Usa gli hanno voltato le spalle, proprio mentre il regista sembrava aver realizzato il sogno americano cinematografico. Due film dall’incasso stellare con Will Smith e l’Italia che stava a guardare quel figliol prodigo a suo agio tra star e red carpet, che tornava solo per un veloce remake salva incassi, per dimostrare a tutti di saper lavorare su due fronti. Ma quello a stelle e strisce è sempre stato il suo preferito, almeno fino alla dichiarazione rilasciata a Repubblica: «Sono venuto qui a fare il gladiatore e non ero attrezzato. Con Will Smith era una passeggiata, mi lasciava libero di girare come volevo. Qui ho capito che cos’è davvero Hollywood, un’industria spietata dove la gente racconta balle dalla mattina alla sera. Contano solo i grafici, i test, il marketing, il profitto».
QUASI FLOP. Il suo ultimo film, Quello che so sull’amore, che noi vedremo in Italia il 10 gennaio, questa volta non ha fatto il botto, nonostante il cast (Gerard Butler, Jessica Biel, Uma Thurman, Catherine Zeta-Jones, Dennis Quaid) e la storia intrigante che vede al centro un ex calciatore professionista che decide di allenare la squadra del figlio per recuperare un rapporto con lui e con la moglie. Nel primo weekend il film ha incassato 6 milioni di dollari, un risultato molto lontano dai successi delle due precedenti pellicole americane, ma comunque dignitoso.
CRITICA ODIOSA. Quello che a Muccino senior non è andato proprio giù è stato leggere le critiche negative dei giornalisti americani che non consigliano di spendere nemmeno un dollaro per vedere Quello che so sull’amore: «Uno s’immagina che arrivato a questo punto, il difficile sia dirigere Butler o Uma Thurman o Jessica Biel o Dennis Quaid, e invece quello è stato un gioco. La fatica è fuori dal set, nell’arena dello show business. Non c’è rispetto per l’intelligenza del pubblico». Pubblico che in Italia l’ha sempre premiato, nonostante la critica spesso incattivita nei confronti dei suoi lavori. Ora cosa farà il il talento ormai incompreso, visibilmente ingrassato e leggermente depresso? Ancora non sa se continuerà ad alimentare il sogno americano, se tornerà a far innamorare ancora gli italiani o se invece aprirà un’associazione culturale assieme agli altri colleghi italiani che attribuiscono sempre i loro insuccessi alla critica, al paese straniero, al doppiaggio sbagliato, alla promozione poco azzeccata, alla giornalista che non capisce niente o all’arte che non è mai compresa. Ma queste cose non sono mai successe a Fellini, Antonioni, Monicelli e Leone, che in America sono considerati cineasti di un livello inarrivabile, registi che nascono una sola volta e che vale la pena guardare e riguardare all’infinito. E così scopriamo che anche in questo l’America ha fatto meglio di noi, che delle perle di questi giganti continuiamo a dimenticarcene troppo spesso.
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