Il cielo in un tinello

Natale. Come ogni anno

Di Eva Anelli
09 Dicembre 2015

PRESEPE

A ben pensarci, dev’essere stato abbastanza squallido. E pauroso. Partorire in una stalla, intendo. Invece che in un ospedale come lo intendiamo noi oggi.

Sono stata proprio recentemente in un ospedale, reparto ginecologia-ostetricia. Non ci “pernottavo” da 20 mesi, ovvero da quando ho avuto quartogenita. Ma stavolta non ero lì per dare un benvenuto, bensì per dare un addio. Mi ha fatto quindi una certa impressione essere “dall’altra parte della barricata”, vedere passare le neo-mamme in ciabattine e vestagliette che spingevano i loro carrellini con dentro i bimbi microscopici, “fatti su” nelle copertine come involtini primavera, guardarsi intorno straniti o dormire beati. Essere lì a guardare passare e non essere una di loro. Star stesa nel letto ad aspettare il mio turno per l’intervento e sentire quelli che strillavano ostinati che qualcuno desse loro da mangiare e non potermi alzare a prenderne uno in braccio e consolarlo. Non poter dire di essere lì per un buon motivo.

Mi ha fatto guardare alla faccenda della nascita di un bimbo con un nuovo senso di partecipazione: so di che si tratta, ci son passata, ma ora la protagonista non sono io, qualcosa accade di fronte a me, di bellissimo, di “vorrei essere io”, ma anche di “non sto perdendo nulla, comunque, a non essere io a prenderlo in braccio: è talmente bello che, anche se son qui a intristirmi in questo letto, quella bellezza arriva anche a me, di più: è (anche) per me”.

Tornata a casa, marito e figli mi hanno accolta con delle luminarie natalizie al balcone che i gestori del Bellagio Casino di Las Vegas ancora stanno impallidendo, e dei sorrisi teneri, di quelli che si riservano a qualcuno cui si vuol far scordare in fretta qualcosa.

Ah, già, rifletto guardando naso in su le luci stroboscopiche: tra poco è Natale. Tra poco, come urla Sgarbi in tv, (si festeggia il fatto che) nasce q/Qualcuno. E quest’anno più che mai sento che si tratta proprio di un fatto e non di un’elucubrazione mentale su cui far sarcastiche battute o salmodiare Grandi Arrivi In Terra Di Grandi Messiah, a seconda che, in soldoni, abbiate o no fede. Non si tratta di qualcosa da cui partire per parlare di sé, del proprio cane, della pupù e della pipì del proprio bambino, delle proprie vacanze, delle proprie idiosincrasie: quello lo facciamo già tutto l’anno, Mark Zuckerberg ha già provveduto a fornirci il più grande mezzo (con cui io quotidianamente perdo del gran tempo) del XXI secolo (e forse anche dei secoli a venire) per farlo. E non solo lui. Qui accade qualcosa e come in tutti i casi in cui accade qualcosa, quel qualcosa si impone nella realtà innanzitutto chiedendo che lo si consideri per quel che è. Non dimenticando sé, ma usando l’interezza del sé per guardare lui. «Hello, it’s me», parafrasando. Uno arriva e innanzitutto, per capire se si tratta di un selfie da un milione di visualizzazioni di Kendall Jenner o dell’ultima dichiarazione di Bashar al-Assad (per sapere che è il presidente della Siria ho dovuto googlarlo, per far bella figura con voi, sennò mica lo sapevo; io so chi è Kendall Jenner, eh), deve GUARDARE. Star zitto e guadare. Posare un secondo lo smartphone, la foto falla dopo (la perenne indecisione materna: mentre mio figlio taglia il traguardo della qualsivoglia gara guardo a occhio nudo o filmo/fotografo?), e guardare. Poi, uno può decidere se voltare lo sguardo o guardare ancora un po’ e vedere come va a finire. Ma un fatto si impone per la sua implicita richiesta di essere guardato: non immediatamente seguito, “approvato”: guardato.

E un aspetto per me interessante della faccenda è che la modalità con cui accade è, poi, “urbi et orbi”, ma la dinamica intrinseca del fenomeno è “one-to-one”: come se Bruce Springsteen decidesse di fare un concerto non per tutta San Siro, ma solo per te, in casa tua, nel tuo salotto. E sarai tu, niente meno, nel caso in cui quel ragazzo del New Jersey ti fosse piaciuto, a spargere in giro la voce che «quello è davvero bravo, la prossima volta venite anche voi al concerto» (devo avere ancora in corpo degli anti-dolorifici, scusate).

Quindi, m’è capitato, tornata dall’ospedale, ancora un po’ stordita mentre bevevo un thè in cucina con figli e marito spiaggiati sul divano davanti alla tv, con ancora in mente i carrellini coi bambini e la mia pancia sgonfia, di aver di fronte quel fatto in un modo più vivido di quello che le sorridenti statuine dei nostri presepi riescano a rendere.

Mi son vista questa ragazza dell’età in cui io facevo ancora il liceo bella lieta e bella ignorante del mondo, affrontare, con tanto di panza di nove mesi, un viaggio in mezzo al deserto verosimilmente a dorso di una qualche bestia, e arrivare in un luogo dove non le è stato assegnato un posto letto; dove non le fanno un monitoraggio per vedere se va tutto bene; dove l’ostetrica non le propone «con cosa si è trovata meglio al corso pre-parto? Posizione Regina Elisabetta seduta in trono o la classica stravaccata-sul-lettino-poi-tiratemelo-fuori-voi”?». Dove le dicono: «Non ce ne frega una mazza fritta se lei, signorina, è incinta e si vede già la testa sbucar fuori: posto non ce n’è in questa locanda – dove peraltro Gordon Ramsey non accetterebbe di assaggiare nemmeno un’insalata – e non vi facciamo dormire nemmeno per terra in cucina: se volete c’è la stalla, in mezzo allo sterco delle bestie e l’orina dei pastori che lì ci vanno per prendere le suddette bestie, cordialità». Dove – ormai la testa era davvero quasi tutta fuori e a Giuseppe cominciava a salire un certo panico perché lui al corso pre-parto a tenere la manina di lei mentre respirava a cagnolino sussurrandole «Vai così amore, sei bravissima» non ci era andato e nessuno gli aveva mai detto niente e a dirla tutta fino a poco tempo prima non ci pensava proprio a tutta quella roba lì, poraccio – di corsa, al freddo, alla sola luce (forse) di una torcia o molto più probabilmente delle sole stelle, senza aver fuori mamma, suocera e parentame vario col telefono in mano per essere i primi ad annunciare al resto dell’albero genealogico «è nato/a» e con la lacrima pronta a sgorgare in punta di ciglio, ma “solo” un marito impacciato che rimane un passo indietro, quella teenager a un certo punto esausta, con le contrazioni ormai lancinanti – altra roba di cui, questa volta a lei, nessuno aveva mai detto niente -, come una scappata di casa o una ladra o una barbona, si rifugia in una stalla (in. una. stalla.), si accovaccia e partorisce.

Certo che Dio ha scelto un modo ben bizzarro per far venire al mondo il Figlio. Non proprio un concerto del Boss in salotto, ecco. Ha scelto, in sostanza, che lo cercassimo. Lui c’era, c’è, ma chi va a cercarselo siamo noi. Insomma, è qualcosa che c’entra con la libertà. Nostra. Un fatto sì, ma a cui aderire liberamente.

Come uno liberamente, cioè continuando ad aderire a ciò che di definitivamente buono per sé ha precedentemente incontrato, davanti a un addio nel reparto ginecologia-ostetricia, a un figlio malato, al sarcasmo di quelli che hanno voltato lo sguardo e giudicano cretino te che lo sguardo non lo hai voltato e ti trattano di conseguenza, all’impotenza e allo smarrimento che si prova di fronte a gente cui viene sparato nella schiena mentre si beve una birra o ascolta musica a un concerto un venerdì sera qualunque di un novembre qualunque a Parigi, ma anche meno, vorrei dire, anche di fronte a un vicino di casa antipatico o a un capo dispotico; uno liberamente, dicevo, davanti a tutto ciò e a molto altro ancora può tornare a Lui; può capire (di quel capire che è il non riuscire più a nascondere a se stessi una verità gridata dall’esperienza propria) che Lui c’entra con tutto; e se c’entra con tutto c’entra anche col frangente esistenziale meno simpatico e desiderabile. Come ha detto al funerale della figlia nata morta uno che seguo su Instagram (sì, perdo tempo pure lì) – video che mi sono premurata di vedere la sera prima di andare in ospedale, io genio: «Quando penso che stiamo vivendo qualcosa di ingiusto, penso che Gesù Cristo ha vissuto tutto tranne che una vita giusta».

Quindi tra poco è Natale. Come ogni anno. Con la ripetitività di un fatto che non ti chiede certo uno sforzo di identificazione – pure i sassi lo sanno che tra poco è Natale e cosa il Natale sia – quanto di riconoscimento e libertà di adesione. Una ripetitività lunga più di duemila anni. E che, ne son certa, andrà avanti all’infinito. Come infinita è la libertà. Come infiniti, cioè non definiti dalla pancia sgonfia, dal capo insopportabile, da una pallottola nella schiena a tradimento, siamo noi. Tra poco è Natale. La festa nostra, esseri meschini e preziosissimi cui è stato fatto questo dono.

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