
Nel dialogo tra Fassino e gli intellettuali il requiem per il talk show della cultura liberal
Ci sono momenti da non lasciar sfuggire tra la massa confusa di eventi. Per esempio l’incontro tra Partito democratico e intellettuali della sinistra, sul tema “Idee per un’etica pubblica”. Un incontro a due facce. Da una parte, un momento di bilancio: è da sessant’anni, infatti, che il Pci “dialoga” con una fetta preponderante degli intellettuali italiani, ed è interessante chiedersi che cosa ne sia uscito. Dall’altra parte, è interessante vedere cosa gli intellettuali abbiano oggi da dire al nuovo partito cui le vecchie formazioni figliate dal Pci hanno dato vita. Sul primo punto, cioè sul dialogo Pci-intellettuali, è stupefacente notare come esso non abbia segnalato ai politici della sinistra quanto accadeva nel mondo e in Italia. Il sistema socialista esplodeva, ma gli intellettuali non ne parlavano. La modernità passava dalla fase del disincanto descritta da Max Weber al “nuovo incantamento”, a una richiesta di senso che riguardava tutti i campi dell’umano e portava a un forte risveglio religioso, mentre intellettuali e politici si muovevano sul cliché novecentesco della “morte di Dio”. Si apriva un dibattito internazionale sul concetto di ragione, in cui il cardinale Ratzinger e l’ultimo epigono della scuola di Francoforte, Jürgen Habermas, prendevano posizione, ma gli intellettuali schierati e i partiti postcomunisti vi rimanevano estranei. La ricerca di appartenenze forti, radicate nelle tradizioni, metteva in crisi gli Stati nazionali, poggiati su apparati giuridico-burocratici, e ridava fiato e senso a identità regionali e locali, ma tutto ciò passava inosservato o veniva etichettato come localismo egoista. Insomma, gli intellettuali della sinistra, oltre a organizzare perfette cordate per la conquista di cattedre e istituti universitari, o per la propria personale visibilità, non hanno registrato, né tantomeno segnalato al potere cui si riferivano, alcuno dei più importanti fenomeni accaduti nel mondo in questi anni. Il dibattito nella sinistra è stato così colpito da asfissia, da una mancanza di ossigeno che derivava anche da una mancanza di informazioni su quanto, nel frattempo, si andava dicendo nel mondo sulla vita degli uomini, e sulle loro comunità e culture.
Intellettuali e partiti postmarxisti cercarono di riprendere quota attraverso una grande attenzione all’effimero, alla cultura-spettacolo, dai girotondi di Nanni Moretti alle confessioni personali di Gianni Vattimo. L’umano però, la “vita buona e felice” di cui parlava intanto Salvatore Natoli, il suo rispetto per il sapere e la cura e non per l’indisciplina delle opinioni e dei corpi, rimanevano fuori dal dibattito-spettacolo, ridotto a tecnologia del potere accademico e scolastico, con conseguenze devastanti per la scuola e per la vita pubblica. Ha ammesso Alfredo Reichlin: «La Chiesa, in una modernizzazione che chiede significati, ha imposto il suo ruolo. Invece di polemizzare, affrontiamo anche noi il campo etico». Certo. L’etica, però, non è un’idea intellettuale. È una pratica. È la “vita buona e felice”. Sono gli affetti, quotidiani ed eterni, dell’essere umano. Il loro rispetto, la loro disciplina, il riconoscimento del loro sapere. Una politica che si metta al servizio di tutto questo, anziché irriderlo come ridicolo anacronismo.
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