Si va – sono stufo di riscriverlo – verso la ripetizione del genocidio, guardato con condiscendenza come nel 1915 dalle potenze occidentali
Albicocchi in fiore ai piedi del monte Ararat, in Armenia
Qui sul bordo del lago di Sevan, di un azzurro pervinca zampillante di trote argentee (le più squisite del mondo: ai tempi dell’Unione Sovietica i compagni del Soviet supremo se ne approvvigionavano per via aerea), la natura grida con la bellezza armena di pietre e cielo: pace, pace, pace. Mi pare di essere stato trasportato, dentro la saga di J.R.R. Tolkien, nella contea degli Hobbit. L’aria è insieme dolce e frizzante, i prati smaltati di margherite, ma poco lontano da qui gli orchi di Saruman battono il passo.
C’è una differenza rispetto alla trama de Il Signore degli anelli: nessuna compagnia di nani, elfi, uomini e mezzi uomini irromperà per frapporsi allo scempio. Finora gli hobbit-armeni-molokani sono rimasti soli. Ancora oggi, mentre scrivo, centoventimila armeni, di cui trentamila sono bambini, stanno nell’Artsakh (Nagorno-Karabakh) sotto assedio azero. Niente pane, nessun medicinale può raggiungere i miei fratelli. L’Onu chiede, l’Unione Europea esige, tutti giudicano questo ...