Non basta “volersi bene”

Di Marco Invernizzi
04 Agosto 2024
A proposito di alcune ambigue dichiarazioni sulla fede attribuite al cardinal Zuppi (e da lui precisate): credere non è un problema di valori ma innanzitutto di un fatto
“Fate l’amore, non la guerra”: manifestazione alla Porta di Brandeburgo, Berlino, in occasione della Giornata della Chiesa protestante tedesca, 25 maggio 2017
“Fate l’amore, non la guerra”: manifestazione alla Porta di Brandeburgo, Berlino, in occasione della Giornata della Chiesa protestante tedesca, 25 maggio 2017 (foto Ansa)

Durante l’estate alcuni organi di stampa hanno attribuito al cardinale Matteo Zuppi affermazioni ambigue del tipo che l’importante è volersi bene; la lettura di Avvenire del 24 luglio e soprattutto la precisazione del presidente della Cei su La Verità del 29 luglio offrono una lettura un po’ diversa, perché il presidente della Cei sostiene che la fede aiuta a volersi bene e quindi attenua l’impressione un po’ preoccupata che il fedele cristiano potrebbe avere ricavato da certe letture di quotidiani.

Ma al di là delle impressioni, è bene invece ricordare che volersi bene non basta. In che senso? Nel senso che la Chiesa non è la Croce rossa e che il cristianesimo senza Cristo non esiste. Questo non significa che chi svolga un servizio presso la Croce rossa non compia dei gesti graditi a Dio ed estremamente belli, e che soggettivamente possa meritare di più del credente che non fa seguire l’amore alla professione di fede.

I farisei dei Vangeli si comportavano così e meritarono la condanna di Gesù, ma ciò che contraddistinse il comportamento del Signore non furono i miracoli, né l’attenzione privilegiata ai poveri e agli ammalati, ma il Suo rapporto filiale con il Padre, il suo voler fare la volontà di Colui che lo aveva inviato per la salvezza di ogni uomo. Una fede che certamente comporta i fatti, cioè l’amore ai poveri e agli ammalati, ma anzitutto la professione, anche pubblica, del fatto che il Figlio di Dio è il Salvatore. Una professione di fede che non sia semplice espressione verbale, ma che nasce dal cuore, da un amore che non può essere essere trattenuto per sé.

Fede, cultura e dottrina

Il punto è di grande importanza e anche molto attuale. Alcuni intravedono il rischio di una ideologizzazione della fede quando quest’ultima è diventata cultura e ha dato vita a una civiltà e quando si mette in risalto la “pretesa cristiana” (Luigi Giussani) che Cristo sia l’unico Salvatore. Certo, se la fede viene “usata” per contrapporsi agli altri, allora diventa ideologia, e se – come accadde dopo le “guerre di religione” e nell’epoca dei Lumi (XVII e XVIII secolo) – rimangono soltanto le conseguenze culturali e civili della fede ma quest’ultima perde la sua centralità nella vita pubblica, allora bisogno preoccuparsi.

Ma, sinceramente, è questa la preoccupazione principale della nostra epoca post-moderna? Oppure dovremmo soprattutto preoccuparci di aiutare la crescita di quelle minoranze creative di cui ha parlato Benedetto XVI, favorendo in esse la formazione di un’identità cristiana legata al Catechismo della Chiesa cattolica, liberata dall’individualismo radicale che spesso giustifica un atteggiamento soggettivistico verso i contenuti della fede e che purtroppo è tanto presente nelle comunità cristiane?

Tempo fa correva frequente un termine, ”dottrina”, per indicare con un po’ di disprezzo questo atteggiamento preoccupato per la mancanza di contenuti nella fede dei cristiani di oggi. Forse davvero è esistita una preoccupazione eccessiva per i contenuti intellettuali della fede in altri tempi, quando “si andava a dottrina”, ma la riduzione della fede a un’esperienza soggettiva (che pure va ricercata e auspicata) è stata una delle caratteristiche dell’eresia modernista. La fede è rivolta a una Persona, al mistero di Dio che si rivela agli uomini, ma questa Persona e la Sua Chiesa ci hanno trasmesso dei contenuti e continuano a farlo.

La necessità per i cristiani di essere “creativi”

Il tema non riguarda soltanto la fede in senso stretto. Pensiamo a quanto leggiamo in questi giorni sui giornali a proposito dei valori dell’Europa e dell’Occidente di fronte alla sfida dell’ideologia del mondo russo, della Cina comunista oppure dell’islamismo sciita. Quali sono questi valori? Partiamo dal presupposto che è importante e positivo che qualcuno si ponga la domanda sui valori e lo faccia su quotidiani importanti, come fa per esempio Ernesto Galli della Loggia spesso sul Corriere della Sera. Ma poi bisogna andare a fondo e cercare di individuarli con precisione.

Per molti intellettuali, questi valori sono gli stessi che stanno distruggendo l’Occidente da due secoli: il laicismo contrapposto al fondamentalismo, la ragione contrapposta alla fede, l’individualismo contrapposto alla comunità di destino. Questo modo di ragionare è caratteristico della cancel culture, cioè di quella cultura woke che sta dominando nelle università americane più importanti e si appresta a entrare in Europa.

Allora dobbiamo fare un’opera importante di chiarificazione all’interno delle comunità cristiane, affinché diventino creative, cioè siano in grado di “creare” un mondo migliore. Dobbiamo spiegare che laicità non è né laicismo né fondamentalismo, che apologia della ragione non significa né razionalismo né fideismo, che centralità della persona non significa né individualismo né collettivismo. E, soprattutto, che i valori sono conseguenza della fede, ma la fede consiste nel credere e nell’abbandonarsi a una Persona.

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