Non ci arrendiamo
Il decano dei neoconservatori Norman Podhoretz aveva previsto che non ci sarebbe stata alcuna Waterloo americana sull’Iraq. Letterato sprezzante, saggista raffinato e polemista cresciuto in seno alla sinistra newyorkese, Norman Podhoretz per un ventennio ha diretto il mensile Commentary, che ha trasformato nel più prestigioso laboratorio culturale dell’eccezione americana. Nel 2004 Podhoretz è stato insignito dal presidente Bush della Medaglia presidenziale per la libertà, la massima onorificenza civile negli Stati Uniti. Con Tempi, Podhoretz commenta il cambio di strategia statunitense in Iraq, una guerra che l’intellettuale neoconservatore ha sostenuto fin dall’inizio e della quale è stato additato come uno degli architetti più influenti.
«A differenza della maggior parte delle persone, non considero quanto abbiamo fatto in Iraq un fallimento. Al contrario, per me l’abbattimento di Saddam Hussein e la sedimentazione della democrazia in così poco tempo ne fa una impresa eroica, affascinante e nobile. Quindi no, la guerra non è persa». Nel suo discorso della scorsa settimana Bush ha riconosciuto però degli errori commessi nella gestione della “guerra dopo la guerra”, come è stata definita l’insorgenza baathista, sciita e jihadista degli ultimi due anni. «Secondo me la vecchia strategia avrebbe funzionato, se le avessimo dato altro tempo, ma dal momento che ciò in America si è dimostrato politicamente impossibile, un nuovo corso era diventato necessario. Perciò sostengo pienamente il nuovo piano del presidente annunciato la notte del 10 gennaio e penso che fornirà ottime possibilità di fare dell’Iraq un posto più sicuro in un anno o poco più».
Podhoretz ha sempre esecrato il panico liberal disfattista sull’Iraq. In questo conserva la fibra del consulente leonino di Ronald Reagan durante la Guerra fredda nella lotta contro il comunismo. Anche allora, i liberal proposero il “contenimento”, mentre Podhoretz insisteva per una politica di sfida al colosso sovietico. Reagan ascoltò lui. E vinse la sfida. «Ci sono somiglianze e differenze fra il panico americano del 1776 e il panico del 2006. Per porlo in termini semplici: in quella prima fase della guerra rivoluzionaria, c’era una ragione per temere che i britannici ottenessero la vittoria sulle forze di Washington. Mentre in Iraq e in Medio Oriente in generale, un risultato di grande successo sta di fronte a noi. Il panico sull’Iraq non è causato dalla prospettiva della sconfitta. Al contrario, la vera paura non è dovuta al timore che stiamo perdendo, ma proprio al fatto che stiamo vincendo. Ma la sindrome del Vietnam è ancora viva. Abbiamo deposto due fra i più crudeli regimi sulla faccia della terra».
Il venerato maestro di una generazione di intellettuali conservatori utilizza l’esempio delle elezioni irachene del gennaio 2005. Podhoretz si domanda quale occidentale sarebbe andato a votare sotto una grandine di bombe, sgozzamenti gratuiti, fucilazioni per strada, minacce di pulizia etnica sunnita e la perenne mannaia di al Qaeda che pende sul collo di ogni iracheno: «Di fronte all’incredulità del mondo intero, più di otto milioni di iracheni si sono recati alle urne nonostante i fascisti islamici li avessero minacciati di massacro. Il progetto di Bush è quello di rendere il Medio Oriente sicuro per l’America, rendendolo sicuro per la democrazia. Nell’arco di tre anni l’Iraq, liberato per opera degli Stati Uniti dalla tirannia totalitaria di Saddam Hussein, ha compiuto passi enormi verso la democrazia».
Un nemico a due teste
L’impresa anglomericana, però, è stata viziata da un idealismo astratto: liberiamo il paese e gli iracheni si comporteranno razionalmente. Questo progetto, nonostante i successi ricordati da Podhoretz, è stato impiccato ai lampioni delle strade di Sadr City e in cima alla moschea di Samarra, la cupola d’oro che al Qaeda ha bombardato provocando una terribile carneficina e la vendetta degli sciiti iracheni. «La dottrina Bush è stata posta nella peggior luce possibile dalla litania democratica sui mali reali o immaginari: Abu Ghraib, Guantanamo, Halliburton eccetera. L’Iraq è al centro di una grande guerra contro l’islamofascismo. Con l’alleanza fra i “guerrieri santi” dell’islamismo e i fascisti baathisti, l’insorgenza ha dimostrato che il nostro nemico ha due teste, una religiosa e una secolare. Ma ha anche dimostrato che la democratizzazione era la giusta prescrizione per eliminare queste due forze. Per me l’Iraq non è né un disastro né un crimine o un’illusione, ma uno sforzo necessario e nobile. Ci sono state tre elezioni ma anche delle grandi difficoltà a causa della violenza settaria esplosa dopo l’invasione. Quindi sì, ribadisco che ci sono stati degli errori, ma il nostro paese è stato indispensabile per sconfiggere le due grandi minacce totalitarie del XX secolo. E oggi avviene lo stesso contro il fascismo islamico. Mi resta difficile immaginare come la Siria possa ad esempio resistere allo tsunami politico che Bush ha scatenato sulla regione». Errori, quelli della Casa Bianca, che tuttavia Podhoretz non giudica insuperabili. E poi è convinto che non esistano imperfezioni tali da giustificare l’aborto di una nuova vita: «La situazione in Iraq continuerà a migliorare e ciò che vedremo sarà un governo stabile consensuale».
0 commenti
Non ci sono ancora commenti.
I commenti sono aperti solo per gli utenti registrati. Abbonati subito per commentare!