Per non lasciare l’Uganda

Di Davide Rondoni
20 Luglio 2006
Roberto Fontolan, Kop ango? ed. Marietti, pagg. 122, euro 10

«A nessuno interessa Kitgum» è l’amara constatazione del direttore dell’ospedale della città ugandese. Le ragioni non mancano. Da vent’anni, il Nord del paese è devastato da guerre civili. Interminabili, incomprensibili, inestricabili, hanno fatto un milione e mezzo di profughi. Ultimo episodio in realtà di una catena di catastrofi che inizia con lo sconvolgimento delle condizioni di vita degli africani prodotto dagli europei dalla fine dell’Ottocento in avanti. Risultato, il 90 per cento della popolazione della regione vive in campi per rifugiati, mantenuta dagli aiuti umanitari, senza lavoro, senza prospettive, senza speranza. O quasi. Perché qualcuno, nonostante tutto, rimane e si ostina a costruire. Sono i medici dell’Avsi, da vent’anni in questa zona. Dalla sanità l’attività dell’Avsi si è allargata all’agricoltura, all’istruzione. «Il nostro metodo – dice Pippo Ciantia, responsabile nazionale – è la presenza». «Concetto che io traduco così» commenta Fontolan, che racconta con passione la piccola grande epopea «se il progetto non è figlio di assiduità, di amicizia, di convivenza, di familiarità, rimane un fiore solitario a rischio deperimento». A Kitgum tutto questo c’è. Lo riconosce anche qualche veterano dell’Africa un po’ no global.

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